Così il braccialetto di Facebook legge nella mente e ci fa interagire con la realtà aumentata

É una tecnologia ancora agli albori ma che promette di rivoluzionare per sempre il nostro modo di vivere. Le interfacce neurali (in inglese “Brain-Computer Interface” o più semplicemente BCI) ci permetteranno infatti di comunicare in modo istantaneo con i computer. Possono essere di due tipi: invasive e non invasive. Della prima categoria si sta interessando l’azienda Neuralink di Elon Musk, con le sue sperimentazioni su chip impiantati direttamente nel cervello per tradurre i nostri impulsi in linguaggio macchina. Dopo i test sulla maialina Gertrude e sulla scimmietta che gioca ai videogame, presto toccherà all’uomo, con l’obiettivo dichiarato di curare depressione e Alzheimer. Nello stesso campo di applicazione si inseriscono anche gli studi clinici effettuati nell’università di Tufts, nel Massachusetts. “BrainGate” è il nome della prima tecnologia neurale completamente wireless, che si avvale di un sistema di elettrodi impiantati nella corteccia motoria e collegati senza fili a un piccolo trasmettitore. Durante i test, due partecipanti affetti da paralisi hanno usato con successo la BCI per comunicare con un tablet usando solo il pensiero.

GLI HACKER

Diversi gli esempi anche tra le interfacce non invasive, che non richiedono cioè nessun intervento chirurgico per poter essere utilizzate. Facebook ha da poco svelato i prototipi in fase di sviluppo nei Reality Labs di Zuckerberg: un visore accompagnato da un braccialetto che capterà gli impulsi trasmessi dal midollo spinale, traducendoli in un’interfaccia di realtà aumentata che si modellerà intorno al nostro quotidiano. Una risposta più evoluta agli ormai affermati Hololens di Microsoft, che dimostra quanto la Silicon Valley sia oggi interessata a questa tecnologia. Anche Apple ha in cantiere un paio di occhiali per la realtà aumentata, ma la tempistica non è stata ancora definita. In tema di sicurezza, le impronte digitali e il riconoscimento facciale hanno mostrato i propri limiti durante l’attacco informatico alla Casa Bianca del 2015, quando alcuni hacker hanno rubato oltre 5 milioni di impronte. E se il nostro cervello potesse essere usato come fattore di autenticazione? L’ha capito già due anni fa la startup italiana Vibre, dando alla luce “Mindprint”, un sistema di riconoscimento biometrico che usa i nostri segnali cerebrali per sbloccare i dispositivi protetti. Si tratta di un cerchietto con 4 elettrodi da indossare sulla fronte, collegato tramite bluetooth a un computer che userà la forma univoca delle nostre onde cerebrali come un vero e proprio “token”, simile ai generatori di codici che si usano per accedere al conto corrente. Il sistema è attualmente indirizzato ad aziende che richiedono un alto livello di sicurezza, ma «contiamo di raggiungere un livello di massa», spiega Raffaele Salvemini, ceo di Vibre, «consentendo agli utenti di effettuare pagamenti o accedere ai propri servizi online senza dover inserire codici su codici». Affascinato dal suo potenziale, anche il governo statunitense ha deciso di investire in questa tecnologia. Nel 2019, un gruppo di ricercatori è stato messo sotto contratto dalla DARPA (l’agenzia di ricerca del Dipartimento della Difesa) per sviluppare un’interfaccia neurale a scopo militare. Nome in codice “BrainStorms”, sfrutterà la nanotecnologia per consentire ai soldati di comunicare in forma mentale con il quartier generale. Le aziende che si sono lanciate in questo settore tendono a enfatizzarne i vantaggi in campo medico, dove la BCI sta dimostrando tutto il suo potenziale. Lo scorso agosto, in Cina, questa tecnologia ha dato la parola ad un paziente paraplegico affetto da afasia. E già nel 2004, la già citata BrainGate ha consentito al tetraplegico Matt Nagle di disegnare su un computer e di muovere con la mente un braccio robotico. I benefici in medicina sono innegabili.

LE DOMANDE

Il cervello però è un organo delicato, e altrettanto delicate sono le domande da porsi quando si tratta di sottoporlo a sperimentazione. In giurisprudenza si parla già di “neurodiritti” per indicare la categoria dei valori umani che fanno capo alla sfera mentale e cognitiva, ma la questione va oltre. Se diventeremo anche noi – almeno parzialmente – delle macchine, cosa impedirà a un hacker di “violarci” e comandare alcune delle nostre funzioni cerebrali, o addirittura di “spegnerci”? Chi ci garantisce che le aziende – specie quelle che vivono di informazioni – non raccoglieranno i nostri dati biometrici a scopo commerciale? In che modo i nostri processi cognitivi verranno condizionati dall’introduzione fisica di un elemento esterno e quali saranno i confini della nostra libertà mentale? Sono dubbi legittimi, anche se forse ancora precoci: chissà che in futuro non basti premere un bottone per cambiarci d’umore e farli così sparire per sempre. 

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