Le protesi macchine da indossare. All'IIT Genova messe a punto due diverse mani di derivazione robotica

Sono macchine ma le possiamo indossare. Grazie a nuovi algoritmi siamo in grado di comunicare con loro in modo naturale e riprenderci così un pezzo della nostra vita. Fino a ieri, il futuro delle protesi sembrava essere legato a doppio filo ai progressi nel campo della robotica. Oggi invece i riflettori puntano in un’altra direzione, parallela ma più sofisticata: è sull’intelligenza artificiale infatti che l’alba della ricerca tecnologica getta luce per donare un nuovo giorno ai portatori di handicap. Le protesi sono ormai da tempo una realtà concreta che aiuta le persone con disabilità a superare le numerose sfide della quotidianità.

 

 

Le abbiamo viste alle Paralimpiadi di Tokyo, che hanno portato con sé non solo 69 medaglie azzurre ma anche tante storie di rinascita e forza straordinaria per tutta quella parte di popolazione – il 15% a livello mondiale – affetta da disabilità. E le abbiamo viste qualche settimana dopo al Cybathlon Global Edition 2020 di Zurigo sfidarsi su percorsi a tempo per testare i migliori dispositivi di ricerca, nel tentativo di mostrare lo stato dell’arte delle tecnologie sviluppate finora e promuovere la collaborazione tra centri e realtà diverse. Parallelamente e spesso anche grazie allo sport, l’orizzonte della ricerca protesica sembra estendersi all’infinito. Scienza e tecnologia oggi possono ridisegnare arti e organi, restituire i sensi perduti e a volte anche inventarne di nuovi.

LE STORIE

È il caso dell’artista Neil Harbisson, nato senza la capacità di distinguere i colori: un’antenna montata alla base del cranio gli permette di “ascoltarli”, trasformando lo spettro visivo in frequenze acustiche, ognuna associata a un colore diverso. Ed è anche il caso dell’atleta italiana Beatrice “Bebe” Vio, colpita giovanissima da una meningite estremamente aggressiva che l’ha lasciata senza arti. Grazie alle sue protesi, oggi Bebe può fare tutto ciò che vuole, che sia prepararsi da sola un caffè, usare lo smartphone o sfilare su un tacco 12. O portare a casa l’oro nel fioretto individuale. L’avanguardia della ricerca protesica oggi passa dall’intelligenza artificiale per migliorare la comunicazione tra uomo e macchina, nel tentativo di renderla immediata e precisa. Ed è in questa direzione che si sta muovendo anche l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, che ha già messo in campo due diverse mani di derivazione robotica: “Hannes”, sviluppata nel laboratorio congiunto Rehab Technologies Lab Iit-Inail, e “SoftHand Pro”, realizzata nel laboratorio Soft Robotics for Human Cooperation and Rehabilitation. Entrambe sbocciano dallo stesso filone di ricerca ma hanno due scopi distinti: la prima è pensata per il mercato, la seconda per la ricerca e la sperimentazione. La prima è non invasiva e usa sensori posti sulla superficie della pelle per interpretare i comandi inviati dal corpo, mentre SoftHand Pro ha l’obiettivo di spingere la ricerca protesica ancora più in là, verso l’integrazione totale con i circuiti spinali per via neurochirurgica, ripristinando così anche il senso del tatto. Il problema principale delle protesi tradizionali rimane però di natura psicologica, quel rischio di abbandono che spinge i pazienti a lasciarle nel cassetto e a privilegiare una semplice protesi estetica, specie quando i controlli non sono ottimali o l’aggancio con il resto del corpo risulta scomodo se non addirittura doloroso. Ed è qui che la sensazione di naturalezza gioca un ruolo fondamentale.

LA FUNZIONALITÀ

Hannes è già in grado di restituire alle persone con amputazione dell’arto superiore oltre il 90% delle funzionalità motorie, e chi l’ha provata giura di sentirla parte naturale del proprio corpo. «Nella vita di tutti i giorni», spiega Lorenzo De Michieli, direttore del Rehab Technologies Lab, «non pensiamo a come angolare la mano o a come posizionare le singole dita, viene processato tutto dal cervello a un livello più basso della coscienza, in modo istintivo». Perché questo avvenga, bisogna però fare in modo che la comunicazione tra noi e la macchina sia il più possibile fluida e priva di fraintendimenti. In soccorso arriva allora l’intelligenza artificiale. «La protesi – continua De Michieli – deve interpretare gli impulsi inviati dalla corteccia motoria nel modo più naturale possibile. Oggi abbiamo a disposizione delle tecniche di machine learning che consentono ai sistemi IA di riconoscere sempre meglio questi segnali e di tradurli in movimenti precisi». Hannes è un dispositivo medico di classe 1, marcato CE ma non ancora in commercio. «Dalla ricerca al mercato la strada è spesso in salita – conclude De Michieli – ma confido che ce la faremo in tempi ragionevoli, anche perché ce la stanno chiedendo in molti e questo è davvero un ottimo segnale».

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