MoltoFuturo Paolo Nespoli: «Lo spazio unisce tutti, lì si lavora per obiettivi comuni. E l'Italia non deve accontentarsi»

"Il destino della Terra è in orbita: il boom delle costellazioni di satelliti, l’Italia è in prima fila". È questo il titolo del webinar del 16 giugno, delle testate del gruppo Caltagirone Editore (Messaggero, Mattino, Gazzettino, Corriere Adriatico, Quotidiano di Puglia). In pochi anni si passerà dagli attuali 5mila satelliti in orbita attorno alla Terra ad almeno 50mila perché non c’è settore dell’attività umana, a cominciare dalle vitali comunicazioni, che possa funzionare e progredire senza l’uso dei satelliti. Il comparto dei satelliti rappresenta il 73% della New Space Economy che al momento vale 400 miliardi che saranno 4.000 nel 2030. L’Italia è nel ristretto club delle nazioni in grado di progettare e costruire sia i lanciatori di satelliti (i razzi) sia i satelliti. E ancora: lo spazio come terreno di battaglia delle grandi potenze, chi controlla lo spazio oggi ha maggiori possibilità di prevalere sul nemico; la conquista degli altri pianeti, perché è importante puntare in alto.

Sono intervenuti: Paolo Nespoli, astronauta con tre missioni in orbita; Giulio Ranzo, Amministratore Delegato Avio; Alessandro Caranci, responsabile della Linea di Business Satellite Communications di Telespazio; Walter Cugno, VP Esplorazione e Scienza Thales Alenia Space e responsabile sito Torino; Giovanni Fuggetta, SVP Spazio della Divisione Elettronica di Leonardo; Giancarlo Varacalli, responsabile Unità Telecomunicazioni e Navigazione ASI; Silvia Natalucci, responsabile Unità Sviluppo Micro e Nanosatelliti ASI; Federico Nati, astrofisico presso l’Università di Milano-Bicocca e scrittore; Paolo Nasetti, responsabile Air Traffic Management System Evolution Enav. Moderano l'incontro il vicedirettore del Messaggero, Alvaro Moretti, e i giornalisti Andrea Andrei e Paolo Ricci Bitti.  

Il webinar

Il cuore e il cervello degli uomini dietro gli “occhi” dei satelliti. Ospite Paolo Nespoli

«Lo spazio unisce tutti, si lavora tutti per gli obiettivi comuni che sono sopra tutti. Lo spazio è passato da un punto da conquistare per vedere quanto bravi si fosse a un utilizzo: ora si utilizza e ci lavorano oltre ai governi anche i privati che lo vedono come un posto per fare business». 

Dagli attuali 5mila satelliti operativi si passerà in pochi anni a 50mila affollando come non mai l'orbita bassa terrestre, che è anche quella della stazione spaziale internazionale, della stazione cinese e di future stazioni anche private: per lei che c'è stato così a lungo, lo spazio resta infinito oppure c'è il rischio di ingorghi e di collisioni?

«Lo spazio è grande e i satelliti sono piccoli, non lo vedo un problema. Sono tantissimi, è vero, ma la massa di questi satelliti rispetto allo spazio disponibile è basso. Bisogna disciplinarli: ora cosa si fa? Si abbandonano dove sono, è come lasciare l'immondizia per strada o buttare dalla finestra delle cose che non servono più. Se tutti cominciano a fare così, la cosa non funziona».

Lei ama definirsi, quando è in missione sull'Iss, un “meccanico” in orbita perché a voi astronauti è chiesto di occuparsi di un po' di tutto durante la manutenzione della stazione e l'esecuzione di centinaia di esperimenti scientifici, ma qual è il ruolo dell'uomo che per le proprie attività, comprese purtroppo quelle belliche, si affida sempre di più ai satelliti e alle comunicazioni satellitari?

«Siamo su un granello di sabbia, dobbiamo continuare l'esplorazione. Non la possono fare i privati, che hanno bisogno di un ritorno economico che non sarebbe immediato. Come governi dovremmo investire. Da un lato, dovremmo avere un laboratorio dove non si sente la forza di gravità e dall'altra continuare con l'esplorazione».

Avremo bisogno di grandi officine nello spazio che possano servire anche per un problema di rifiuti spaziali da riconvertire?

«Ora senza satelliti non possiamo fare tutto ciò che possiamo fare e le applicazioni dei satelliti si trovano giorno per giorno. Perché il satellite è una macchina e noi esseri umani usiamo le macchine per fare le cose che non vogliamo fare. Lo spazio è un punto di sviluppo nel futuro e le cose che si possono fare sono tantissime». 

L'Italia è stata la terza nazione dopo gli Stati Uniti e l'allora Urss a inviare un satellite in orbita (il San Marco, nel 1962): da allora ha sempre mantenuto un posto importante nel club delle nazioni “spaziali”, ora ritiene in pericolo questa presenza significativa anche perché sempre più stati, nonché aziende private, sono in grado di costruire razzi lanciatori di satelliti e i satelliti stessi?

«In Italia riusciamo a fare cose impossibili per tutti ma c'è un dislivello con una serie di cose semplici su cui abbiamo difficoltà. Dovremo lavorare in questo settore e usare le nostre capacità per andare avanti. Dobbiamo dare alle industrie le possibilità di esprimersi, non possiamo sederci sugli allori perché siamo stati i numeri 3 ad andare nello spazio. È come aver vinto un oro alle Olimpiadi: resta per quel giorno ma puoi rivincerlo solo se ti alleni».

Ha raggiunto la sua felicità di uomo come astronauta?

«Ora che ho una certa età e sono alla fine della mia carriera riconosco di esser stato fortunato. Da piccolo volevo fare l'astronauta, influenzato da americani e sovietici. Prima era una moda, ora i ragazzi dicono che vogliono fare lo chef perché va di moda». 

 

L’accesso autonomo e sicuro allo spazio: i lanciatori

Ospite Giulio Ranzo, Amministratore Delegato Avio

Nel progetto Vega (vettore europeo di generazione avanzata) è determinante il ruolo dell'ingegnere, scienziato e militare Luigi Broglio, scomparso nel 2001, fondatore della Scuola di Ingegneria aerospaziale dell'università La Sapienza di Roma nonché capo del progetto che nel 1964 portò in orbita il primo satellite italiano, il San Marco: un italiano forse non abbastanza ricordato in Italia. La sua lungimiranza e la sua intraprendenza sono ancora attuali nel mondo dell'aerospazio italiano, in particolare all'Avio?

«Come diceva Nepoli, Broglio ha dimostrato che l'Italia ha sempre avuto l'obiettivo di andare nello spazio, dandosi degli obiettivi incredibili per l'epoca. Nella mia azienda abbiamo accolto una sfida molto importante, realizzando questo razzo da zero, da un foglio bianco. Eravamo incoscienti per un progetto di questo tipo così come riuscì Broglio: rappresenta un esempio e poiché la storia dell'Italia è gloriosa, questi episodi storici rappresentano uno stimolo per scrivere il futuro dei prossimi decenni». 

Con i lanciatori Vega, Avio garantisce un accesso autonomo all'Europa e all'Italia allo spazio: che cosa significa cercare di mantenere la leadership in un settore, quello dei lanciatori di satelliti medio-piccoli, sempre più affollato da grandi potenze e anche da grandi compagnie private?

«Vediamo intanto cosa occorre per mantenere questa leadership, ossia portare tecnologie più performanti e meno costose. Se riusciremo in questo obiettivo ambizioso, manterremmo un ruolo all'interno di un settore che è globale per natura e tra l'altro molto squilibrato. Ci sono 90 Paesi che lavorano satelliti e solo 7 che sono in grado di lanciarli nello spazio, tra cui noi. Serve continuità sulle linee strategiche anche a livello di connessioni tra privato e pubblico». 

Avio svilupperà prima o poi un modello di lanciatore che preveda il recupero degli stadi? E perché Vega è definito lo scuolabus dei satelliti?

«Penso di sì. Non è una novità, è una cosa sperimentata già negli anni '90 ma poi è stata recuperata con Space X. Stiamo lavorando a una tecnologia propulsiva che utilizza il metano, la stessa di Space X. Per gli stadi è una tecnologia pulita, non rilascia scorie ed è più semplice da riutilizzare. Abbiamo portato 50 satelliti nello spazio e li abbiamo scaricati in stazioni di sosta diverse, collocando alcuni di loro su un piano orbitale e altri su un piano orbitale diverso: come fa uno scuolabus quando lascia diversi bambini nel percorso».

Cosa serve per lavorare con Avio?

«Le competenze, la determinazione perché gli obiettivi sono sfidanti e mai fatti primi. Il terzo ingrediente è la passione: senza quella è impossibile fare questo mestiere. I giovani sono attratti perché questo è il loro sogno da bambini e nel futuro ne avranno le possibilità». 

Come imprenditore italiano che ha lottato con successo per mantenere e sviluppare il lanciatore Vega in Italia, invidia ai concorrenti – mettiamo francesi e tedeschi – la stabilità delle politiche governative nel settore aerospaziale che richiede tempi basati sulle decine d'anni?

«La Francia ha avuto una grande continuità negli ultimi anni. Ma l'Italia ha alzato la testa mettendo grande attenzione al settore spazio. In Pnrr ha destinato molti fondi allo spazio e questi si sovrappongono agli investimenti già pesanti che venivano fatti. L'Italia ha la possibilità di stare al livello della Francia ma dobbiamo migliorare come continuità nel tempo».

L’internet del futuro che viene dal cielo

Alessandro Caranci, Responsabile della Linea di Business Satellite Communications di Telespazio

Con la pandemia abbiamo visto quanto sia importante avere connessione anche in luoghi remoti del Paese e quanto il digital divide sia un problema non solo tecnico, ma sociale. Un aiuto può quindi venire dallo spazio, grazie alle connessioni satellitari. In Italia abbiamo un'eccellenza, come il Centro Spaziale del Fucino di Telespazio. Di cosa si tratta?

«La gente vuole comunicare o lavorare quando è in nave o in aereo e i satelliti sono una possibilità per questo. Telespazio vende questi servizi a chi è in digital divide. Un servizio di trasmissione satellitare deve incontrare la Terra e lo fa al teleporto, come il Fucino che è il più grande al mondo. Nel centro, oltre alla funzione di teleporto, vengono gestite orbite di satelliti commerciali o istituzionali». 

Come funzionano le connessioni internet satellitari? Che tipo di connessione offrono e in che ambiti le utilizzate prevalentemente?

«A casa avrebbe un modem collegato al computer simili a quelli utilizzati per la fibra. Questo modem sarà collegato a un'antenna esterna che vedrà il satellite, simile a quelle delle tv, che sarà in grado di trasmettere. Il satellite riceve l'informazione e la manda nel teleporto e da lì entra nel modo internet: facendo il percorso al contrario si potrà navigare. Questo processo dura qualche minisecondo. I satelliti sono geostazionari, come quelli della tv, e quelli non geostazionari per cui la latenza scende a circa 40 millisecondi di latenza».

Cosa sta facendo Telespazio per contrastare il fenomeno del digital divide?

«Non vendiamo in forma diretta, abbiamo fatto accordi con le TelCo nazionali che sono in grado di completare la loro offerta fornendo il nostro servizio».

I costi delle connessioni sono però ancora molto elevati e la potenza limitata: come risolvere questo problema? Quanto costa una connessione satellitare?

«La connessione satellitare è la meno economica, ma parliamo di costi da 20-30 euro al mese fino a 100 euro al mese per traffico illimitato. Non è una differenza molto marcata rispetto alla banda larga. Ma se il satellite rimane il servizio di larga banda più costoso per utente è quello meno costoso per la collettività. La tecnologia ha un suo ruolo in un'architettura complessiva».

In queste settimane si parla molto di Starlink, la connessione satellitare che Elon Musk ha messo a disposizione dell'Ucraina durante la guerra. Come le connessioni satellitari possono diventare un mezzo strategico in un simile scenario?

«Ci sono due concetti: il primo è che il satellite è in grado di realizzare connettività laddove non c'è. E il secondo è quello della sicurezza: connessioni satellitare e ambiente militare lavorano a braccetto. Chi si occupa di difesa e di pace non sa a priori dove andrà a operare e attraverso il satellite può ricreare la propria rete con criteri di sicurezza. L'operazione di Elon Musk è interessante e positiva ed è la dimostrazione di questi effetti: in pochi giorni ha ricreato connettività con un livello di sicurezza sufficiente per dare valore alle informazioni che vengono ricreate. È stato un buono spot per le connessioni satellitari».

Artigiani e ingegneri nello Spazio: fascino dell’esplorazione e del business della New Space Economy

Walter Cugno, vicepresidente Esplorazione e Scienza Thales Alenia Space e responsabile sito Torino

Perché l'Italia si può definire in prima fila nel mondo a proposito di progettazione e realizzazione dei satelliti?

«I principali progetti nascono dal nostro Paese e dalla nostra azienda. Una catena dal valore importante e che oggi ci vede protagonisti nell'esplorazione dello spazio: orbita bassa, ritorno sulla luna ed esplorazione di Marte. L'Italia è tra le potenze spaziali a livello mondiali».

Lei è sulla Terra oppure ci sta parlando dalla “Città italiana dello spazio” che conta già almeno 15mila abitanti? Insomma, ci parla dal polo aerospaziale più vasto e importante d'Europa dove nascono non solo satelliti, ma anche navicelle e moduli delle stazioni spaziali? 

«È un polo che nasce in una situazione industrale che vede 300 piccole e medie aziende intorno a questo agglomerato. Un territorio che ha una lunga storia in materia aerospaziale: dall'alto vediamo i futuri moduli a cui hanno contribuito anche Paolo Nespoli e la Cristoforetti. Ora possiamo disporre di queste capacità che ci permettono di presentarci come protagonisti».

In fatto di spazio si pensa a scenari fantascientici, ma al tempo stesso vi è richiesta un'artigianalità che risale alle radici dell'uomo, come ha detto la stessa Samantha Cristoforetti che per la sua attuale missione ha scelto il nome Minerva, dea degli artigiani. Può farci qualche esempio di questa “artigianalità” italiana già in orbita o che lo sarà prossimamente?

«Abbiamo aree dove si possono ricreare dei prototipi per dimostrare che le loro idee sono dimostrabili. Poi l'idea deve entrare in una logica di processo industriale perché nello spazio non si possono fare errori. Samantha quando ha parlato di artigianalità intendeva proprio questo: serve creatività e capacità immaginativa ma bisogna poi garantire la qualità di un prodotto sicuro e che rispetta le prestazioni richieste per operare nello spazio».

La missione ExoMars. 

«Stiamo lavorando a un recupero della missione, nella nostra azienda abbiamo la capacità di guidare questa impresa. Manterremo la leadership e guideremo l'atterraggio su Marte a livello europeo. Gli studi saranno disponibili tra fine giugno e inizio luglio».

Giovanni Fuggetta, SVP Spazio della Divisione Elettronica di Leonardo

La nostra vita quotidiana è molto influenzata dai satelliti, che ci forniscono una lunga serie di servizi a terra: tra questi, ad esempio, ci sono i servizi di navigazione. Come funzionano nello specifico? 

«Leonardo nella navigazione sviluppa gli apparati atomici che ci dice le distanze tra satelliti e quindi la nostra posizione. Realizziamo l'apparato che ci permette di avere la nostra posizione sul telefonino. Sono orologi pazzeschi con tecnologia avanzata, un plasma di idrogeno e attraverso circuiti elettronici  decodifichiamo il segnale direttamente dall'atomo di idrogeno ricostruendo un segnale di tempo. I nostri orologi sono estremamente precisi, l'errore è di un secondo ogni tre milioni di anni. Da questa accuratezza di aprono molte applicazioni. Il prossimo step sarà la navigazione autonoma anche a livello di aviazione con atterraggi più sicuri in caso di condizioni avverse come pioggia o nebbia».

Quali saranno gli sviluppi e gli utilizzi futuri dell'orologio atomico?

«Ci sarà un traffico intenso verso la Luna e ovunque l'uomo andrà avrà bisogno di sistemi di navigazione. La tecnologia dell'orologio atomico sarà esportata in quegli ambienti che aiuterà rover e altri mezzi a orientarsi. L'obiettivo è la sicurezza».

La missione ExoMars. 

«Quella macchina l'abbiamo fatta anche sotto l'aiuto di Angioletta Corradini che ora non c'è più e aspettiamo con ansia e supportiamo tutte le iniziative dell'agenzia spaziale italiana ed europea che stanno portando avanti per vedere quel trapano su Marte. È una cosa che ci sta a cuore e che ci vede impegnati tutti i giorni».

 

Dalla Terra alla Luna: la filiera completa dell’Italia

Giancarlo Varacalli Responsabile Unità Telecomunicazioni e Navigazione ASI

Perché c'è o ci sarà bisogno di costellazioni di satelliti anche di 12mila unità ciascuna? E' un bisogno reale oppure è innescato dall'esasperazione del business delle comunicazioni?

«Basta vedere l'Ucraina dove l'unica rete è Starlink. C'è sicuramente una questione strategica e per questo Starlink è stata supportata dal governo americano. Ma c'è una questione di conquista delle risorse spaziale, sia delle orbite che delle frequenze da utilizzare: chi arriva prima li ha tenuti avendo un ruolo predominante. Per questo molte altre potenze spaziali si sono mosse per correre ai ripari al pari di Elon Musk. Jeff Bezos ha lanciato un progetto simile altrettanto ambizioso».

Solo negli ultimi tre anni si calcola che almeno 2mila persone siano ancora vive grazie a salvataggi basati su informazioni satellitari del sistema Galileo. 

«È un sistema che si chiama search and rescue che fa parte del sistema Galileo. È un apparato che manda un segnale a Galileo che poi lancia l'allarme ai soccorsi che può intervenire. È attivo 24 ore su 24 in tutto il mondo: un servizio poco pubblicizzato che ha salvato molte persone».

Può descriverci che cosa accadrebbe alla nostra vita di tutti i giorni se restassimo senza satelliti? 

«Trasmissioni di dati, distribuzione dell'elettricità, sistemi Gps… La sincronizzazione è ormai in tutti i settori. La navigazione, i sistemi di localizzazione ma anche le previsioni del tempo: la fotografia dell'atmosfera e delle perturbazioni le abbiamo grazie ai satelliti. Non sarebbero più possibili previsioni meteo accurate che abbiamo ora. C'è un risvolto economico sostanziale perché molti servizi sono ottimizzati sulle previsioni».

 

Silvia Natalucci, Responsabile Unità Sviluppo Micro e Nanosatelliti ASI

La scala di grandezza dei satelliti: da quelli pesanti qualche tonnellata a quelli da un etto. Un Microsatellite è più pesante di un Nanosatellite? Come funziona un satellite che pesa un chilogrammo? Quanto costa? E quanto costa portarlo in orbita? 

«Attualmente non c'è una classificazione, ma a livello di agenzia si considera microsatellite al di sotto dei 100 chili e nanosatellite quello al di sotto di 25 chili. Complicato dire quanto costa, dipende dalla tipologia della missione, commerciale o istituzionale, o dalla tipologia di tecnologie che vengono imbarcate o la componentistica elettronica. La classe standard dei nanosatelliti con scopo commerciale e di durata breve in orbita bassa si parla di 400-500mila euro per dei nanostelliti a forma di cubo di circa 10 centimetri di lato. Ma ogni aggiunta e richiesta ulteriore fa lievitare il prezzo».

Perché con i nanosatelliti si parla di “democratizzazione” e di “rivoluzione” nello spazio?

«Si parla di rivoluzione per i costi ridotti in termini di risorse e di tempistiche: così sono entrati in questo settore di mercato centri di ricerca, università e Paesi emergenti che non potevano pensare di lanciare in orbita un satellite. Si è ampliata la platea di interlocutori e lo viviamo anche noi a livello di agenzia a livello quotidiano. I nanosatelliti sono uno strumento utile nella diplomazia spaziale perché permettono di avere relazioni con partner che prima non potevano essere raggiunti. Stiamo vivendo ora una seconda rivoluzione data dall'utilizzo nelle costellazioni: i nanosatelliti hanno costi di lancio ridotti e tempi più bassi di lancio e quindi si prestano al lancio nelle costellazioni. Questo fa sì che siano strumenti adatti a gestione delle emergenze o monitoraggio di siti costante: riusciamo a lanciare costellazioni che hanno bassi costi rispetto ai satelliti tradizionali. Ora si possono impiegare nanosatelliti nel settore delle costellazioni».

Pioggia di adesioni da parte di università, enti di ricerca e aziende private ai bandi dell'Asi per progettare e costruire nanosatelliti: per quali attività? C'è una proposta che l'ha particolarmente colpita?

«Recentemente l'agenzia ha pubblicato un bando con 49 proposte tutte ad alto contenuto tecnologico. Era una call for ideas, senza grandi vincoli: sono arrivate proposte in tutti i settori, dall'osservazione della Terra all'astrofisica fino alle telecomunicazioni. Una vasta gamma di servizi applicativi, ne abbiamo scelte 20 ma un paio di queste mi hanno fortemente colpito: la prima è una missione di IoT tramite satellite nella quale si presume di lanciare satelliti di un terzo dell'unità standard. In queste schede c'è un concentrato di energia tale da renderlo molto affascinante. Un'altra missione è un'esplorazione planetaria che vuole arrivare su una delle lune di Marte».

 

"Con lo sguardo verso l’alto, per osservare il cosmo". Ospite Federico Nati, astrofisico presso l’Università di Milano-Bicocca e scrittore

Quali sono le attuali frontiere dell'esplorazione attraverso i telescopi?

«I telescopi montati a terra in cima alle montagne e in climi secchi possono essere messi su satelliti o fatti volare su delle mongolfiere che volano a 40 chilometri da terra perché cerchiamo di avere meno nebbia possibile davanti. Dobbiamo comprendere l'universo nella sua interezza sia come si sono formate le strutture come le stelle, le galassie e la materia che possiamo vedere e quella che non possiamo vedere. Con questi strumenti cerchiamo di rilevare segnali che i nostri modelli matematici-scientifici prevedono ma che non abbiamo mai visto. I telescopi sono in grado di vedere colori che i nostri occhi non vedono, come ultravioletti, raggi gamma ecc.».

Cosa hanno a che vedere i satelliti con i telescopi?

«I primi esperimenti spaziali facevano uso di mongolfiere nella stratosfera. Poi la messa in orbita dei satelliti ha permesso di mettere lenti anche lì. E l'Italia gioca un ruolo primario anche in questi settori di ricerca astrofisica».

Le costellazioni di satelliti possono creare dei problemi ai telescopi terrestri?

«Parliamo di circa centomila satelliti piccoli a 500 chilometri dal suolo, come Roma-Milano. E queste sono orbite basse. Le stelle visibili a occhio nudo, per dare un'idea, sono seimila. Quindi parliamo di mettere venti volte il numero di stelle visibili, nel cielo. Questo crea degli effetti sia a livello di godimento del cielo notturno sia un disturbo nell'osservazione. Questi satelliti possono emettere luce, riflettere quella del sole e trasmettere radiazione: tutto questo crea un disturbo».

Ne “L'esperienza del cielo” racconta di una missione in Antartide nel 2018 insieme a un team internazionale per spedire nella stratosfera un telescopio di tre tonnellate. Perché si mandano telescopi nella stratosfera?

«Uscire dall'atmosfera serve a ridurre effetti dell'osservazione. Costi ridotti e tempi ridotti: quando parliamo di palloni parliamo di 40 chilometri di quota, si può fare osservazione di quelle frequenze, luce e colori che non arriverebbe a terra perché l'atmosfera le controlla completamente. Il cosmo è un laboratorio di fisica che è possibile utilizzare osservando i fenomeni a diverse lunghezze d'onda. Per farlo bisogna andare fuori dall'atmosfera. La missione vuole capire come si formano le stelle nella nostra galassia e lo fa guardando agli embrioni di stelle». 

"La rivoluzione digitale del traffico aereo". Ospite Paolo Nasetti, responsabile Air Traffic Management System Evolution di Enav

Il progetto "torri remote" quanti aeroporti servirà?

«Il programma prevede 26 aeroporti e la definizione di due centri di controllo di torre remoto dal quale controlleremo gli aeroporti, uno a Brindisi e uno a Padova. Il nuovo servizio è per ora destinato a medi e piccoli aeroporti. Ma anche Grottaglie e Foggia, Salerno, Roma Urbe, Ancona, Venezia Lido, Padova, Treviso, Forlì».

Perché ci si è arrivati?

«Le torri remote si fanno per una questione di flessibilità: avranno copertura 24 ore su 24 e sette giorni su sette, un valore aggiunto per i servizi da attivare o già attivati come i voli-ospedale o per il trasporto organi. Questo consentirà alle società di gestione di potenziare i servizi in questi aeroporti. L'obiettivo è aumentare la flessibilità 24 ore su 24, sette giorni su sette e 365 giorni l'anno. È un cambiamento culturare».

Il controllore diventa come una sorta di "regista". 

«A Brindisi è stata fatta una formazione per la nuova infrastruttura tecnologica in modo che i controllori avessero le skill. E questo succederà per tutti coloro che saranno impiegati nelle torri digitalizzate».

Quali altre case history e perché Italia sarà il più grande progetto europeo di remotizzazione, peraltro c'è un lavoro che stanno portando avanti per l'uso dei satelliti per il controllo su tutto il globo terracqueo, visto che ad ora i radar non coprono il 70 per cento delle rotte terrestri quando gli aeromobili sono sugli oceani.

«Già utilizziamo delle procedure basate sui satelliti. Nel futuro il controllo sarà fatto con i satelliti e non solo i radar, saranno sistemi integrati che garantiranno la copertura anche sopra gli oceani. In Svezia e Norvegia ci sono già controlli da remoto, Londra e anche in Germania ma siamo come Paesi tra i primi. E proveremo a esportarlo».

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