I robot sognano? La domanda, che rimanda al titolo del celebre romanzo di fantascienza di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (titolo in italiano Il cacciatore di androidi) da cui è nato il film Blade runner, è suggestiva e legittima dato che siamo circondati da tecnologie inimmaginabili fino a qualche anno fa: auto che guidano da sole, robot che camminano, saltano ed effettuano interventi chirurgici di precisione e intelligenze artificiali che scrivono testi o poesie, compongono musica, traducono e creano immagini.
Quello che un tempo era invenzione ormai è quotidianità. Del quesito provocatorio si è parlato in un incontro organizzato dall’Università di Padova, relatori Ruggero Carli, professore di Robotics and Control, e Pietro Falco, docente di Control Systems del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Ateneo patavino, i quali si sono soffermati anche su un’altra istanza emblematica: potranno i robot sviluppare qualcosa di simile alla coscienza?
La risposta è no, ma i due studiosi hanno precisato che è così in questo momento, ma da scienziati non escludono che in futuro lo scenario cambi e i robot possano davvero sognare.

L’APPROCCIO
L’analisi è partita dalle modalità con cui una macchina impara fino a sostituirsi all’uomo. Ma come funziona l’apprendimento automatico, il cosiddetto machine learning? «Imparare dai dati – ha spiegato Carli – significa che una macchina scopre da sola le regolarità osservando milioni di esempi. Ma non dobbiamo immaginare un pensiero cosciente: un’IA non capisce nel senso umano del termine bensì riconosce schemi ricorrenti. Un’analogia è quella del bambino che impara cos’è un gatto: glielo mostriamo e ri-mostriamo, e dopo molte ripetizioni saprà riconoscerlo. Le macchine fanno lo stesso, solo che hanno bisogno di numerosi esempi. Gli algoritmi più potenti per tale apprendimento sono le reti neurali ispirate al nostro cervello che è fatto da miliardi di neuroni collegati, ognuno dei quali riceve segnali: se la somma supera una certa soglia, “scatta” e manda un impulso ai successivi. Le reti neurali artificiali traducono il processo in matematica e ora vengono usate per analizzare immagini mediche, ottimizzare processi industriali, riconoscere voci e volti, generare testi e immagini. E quando queste intelligenze vengono integrate nei robot, nascono macchine capaci di decidere in tempo reale, come le auto senza pilota, o i droni di soccorso». C’è poi il reinforcement learning. «L’apprendimento per tentativi – aggiunge il docente del Bo – è un modo in cui un computer impara facendo esperimenti e ricevendo premi o penalità in base a quello che fa, come avviene con i cuccioli. I pc imparano a giocare a videogiochi complessi, a far camminare robot o a ottimizzare consumi energetici, senza che un umano gli dica cosa fare». Ha osservato Falco: «È un insieme di capacità, analitiche, creative e pratiche a cui si affianca l’intelligenza emotiva, la capacità di riconoscere e gestire emozioni, proprie e altrui. Distinguerle, però, non significa provarle davvero. Da qui la domanda cruciale: i robot comprendono o simulano? Il passo successivo è il tema della coscienza, intesa come esperienza soggettiva. Un conto è l’intelligenza, altro è la consapevolezza delle esperienze e di sè.

LA STANZA CINESE
A chiarire questa distanza è il famoso paradosso della Stanza Cinese di John Searle: manipolare simboli non equivale a comprenderne il significato. L’intelligenza artificiale padroneggia la sintassi mentre un essere umano comprende la semantica, il significato dei simboli. E la coscienza non è qualcosa che si capisce con concetti astratti, ma che si esperisce. Qui entrano in gioco le tradizioni contemplative che indagano come pratiche millenarie possano offrire strumenti per investigare e riconoscere l’esperienza cosciente soggettiva». «Sul piano tecnologico ed etico – ha aggiunto il docente – ci troviamo in una fase decisiva: per la prima volta l’umanità ha creato agenti artificiali, entità che prendono decisioni, apprendono e agiscono. Questo apre scenari inediti e responsabilità senza precedenti. Come verranno utilizzati? Poiché i robot non sono esseri coscienti, non possono avere responsabilità, che va ai progettisti e ai fornitori di dati. I robot, quindi, non sognano e non abbiamo al momento strumenti ingegneristici per generare coscienza artificiale. Ma la sfida non è meno urgente: riguarda noi. Davanti a tecnologie sempre più autonome, la vera domanda è se sapremo coltivare cultura, etica e saggezza per governarne l’impatto». Carli ha concluso: «I robot oggi non sognano, non provano emozioni e non hanno autocoscienza. Sono sistemi sofisticati che calcolano, non esseri che pensano. Ma ogni passo, dalle reti neurali ai robot autonomi, ci porta verso macchine sempre più vicine alle nostre modalità di percepire e agire. Forse la vera domanda non è se sognano, ma quali sogni umani stiamo trasferendo dentro le macchine che costruiamo. Perché i robot, in fondo, sono lo specchio delle nostre scelte, delle nostre paure e delle nostre speranze».
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