Covid, compressi in orari da coprifuoco e iperconnessi: abbiamo smarrito il tempo

Chi ha tempo non aspetti tempo, recitava un vecchio adagio che oggi suona più datato che mai. Gli ultimi 14 mesi hanno stravolto non soltanto le nostre vite ma anche, e soprattutto, il nostro rapporto con il tempo: non più linea scandita da fasi ben distinte della giornata, ma bolla dilatata in cui la linea di demarcazione fra un momento e l’altro è stata fagocitata da un tempo che non ha tempo. Lo smart-working, le videocall, le riunioni online, la dad ci hanno proiettato in una dimensione nuova in cui la fruizione del tempo sta assumendo una fisionomia inedita. Quello che, per certi aspetti, dovrebbe sembrare un accorciatore di distanze e un abbattitore di barriere si sta rivelando una trappola. Siamo caduti nell’insidia della connessione permanente, in cui ore e minuti non ci appartengono più, in cui non c’è inizio e non c’è fine. In cui il vantaggio di poter entrare in una riunione con un clic è azzerato da videochiamate che si rincorrono senza soluzione di continuità, dall’incapacità di staccarsi dal tablet, dalle mail che inseguono le news online, dalle chat che prendono il sopravvento sulle conversazioni. Per chi è sempre più schiacciato dal peso dell’iperconnessione anche quello che una volta veniva vissuto come un fastidio sembra ora assumere un valore diverso. L’ora di macchina per raggiungere un appuntamento con questi occhi non appare più un’odiosa perdita di tempo, magari in mezzo al traffico, ma un momento analogico di decompressione, di pensieri, di riflessione. Sono attimi dell’io che stanno scomparendo in favore di un continuum asettico appoggiato su una realtà immateriale. Sia chiaro: questa accelerazione digitale imposta dal Covid non è un male in sé; è una risposta fisiologica e necessaria alla contemporaneità e al progresso e rappresenta un potenziale straordinario, a patto che capiamo come gestirla e come gestirci. Dobbiamo imparare a uscire da Zoom e riprenderci il nostro tempo e il nostro spazio prima che questa dilatazione temporale si mangi la nostra quotidianità. «I giorni sono forse uguali per un orologio, ma non per un uomo!», scriveva Proust. Ed è proprio così: la nostra percezione e la nostra testa sono anche il nostro orologio. E il nostro orologio va allenato e abituato gradualmente al nuovo scorrere della clessidra digitale.

La costanza di questa interazione virtuale, arrivata tutta insieme e all’improvviso, ci ha colto impreparati, o meglio non allenati ed è causa di affaticamento e stress. Un articolo frutto di un studio sul tema, uscito qualche mese fa su National Geographic, ha anche dato una chiave di lettura scientifica della questione, spiegando che queste forme di connessione no-stop sono faticose per la nostra mente in quanto durante le comunicazioni virtuali saltano tutti quei segnali tipici della comunicazione verbale che sono però molto importanti nell’interazione in quanto portatori di una serie di messaggi che attraverso la sola comunicazione virtuale il cervello fatica a interpretare. Insomma sotto “Zoom” non solo il tempo si dilata ma la nostra mente è chiamata a uno sforzo superiore. Dall’altro lato della medaglia ci sono poi mesi di tempi contingentati e negati, di tempi costretti e coprifuochi che hanno limitato ancora di più lo spazio temporale a nostra disposizione e il modo di disporne. Ne è nata una dicotomia che ha generato a sua volta una vita sospesa fra pseudo-normalità e nuova normalità scandita da una continuità di connessione in cui la divisione del tempo si è andata costantemente perdendo. E la coda lunga di questo fenomeno ha invaso anche il nostro tempo libero facendo di fatto sparire anche la seconda serata, fra streaming, gaming e programmi tv dagli orari sempre più allungati. Ma se vengono meno le differenze fra prima e seconda serata, fra una domenica mattina e un mercoledì pomeriggio se mancano i paletti che scandiscono l’inizio e la fine di un appuntamento, a quel punto non ci sarà più differenza nel fissare una call a metà settimana o in pieno weekend. A telecomandare questo approccio c’è la percezione che ci sia sempre tempo per fare qualcosa, ma così si finisce per riempirlo troppo e in modo sbilanciato. Insieme all’equilibrio evapora così la linea di demarcazione fra lavoro e tempo libero. E non è un bene.

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