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Social e digital, l'esperto Matteo Grandi: l'algoritmo decide per noi, ecco come salvarci

Gli algoritmi oggi fanno parte della nostra vita. La porta d’ingresso principale sono stati i social. Ma non solo: anche i nostri acquisti online, il frigorifero smart che fa la spesa al posto nostro, il navigatore… Pensare di cambiare gli algoritmi è una piccola utopia. Però possiamo cambiare noi. Possiamo modificare i nostri bìas cognitivi per avere il sopravvento sulle macchine e per evitare che l’intelligenza artificiale, che promette grande potenziale ma nasconde innumerevoli rischi, possa invece avere il sopravvento su di noi. Oggi, come scrive molto lucidamente Massimo Chiriatti nel suo “Humanless” (Hoepli), gli algoritmi stanno diventando egoisti. L’impatto che hanno sulle nostre vite è dirompente. Lo spiega bene anche un altro saggio, quello di Ed Finn, direttore del Center for Science and Immagination all’Università dell’Arizona, intitolato “Che cosa vogliono gli algoritmi” (Einaudi). E il punto focale è sempre lo stesso: dall’uso del navigatore a quello della carta di credito cediamo costantemente agli algoritmi la gestione delle funzioni amministrative delle nostre esistenze. Una quantità infinita di dati sensibili.

Il libro di Finn spaziando da “Snow Crash” di Neal Stephenson all’“Encyclopédie” di Diderot, da Adam Smith al computer di Star Trek, esplora il divario tra orizzonte teorico ed effetti pratici, esaminando lo sviluppo degli assistenti intelligenti come Siri, l’estetica algoritmica di Netflix, la rivoluzionaria economia dei bitcoin, le mappe di Uber, la crescita esponenziale di Facebook o l’obiettivo di Google di anticipare ogni nostra esigenza e intenzione e molto altro ancora. Perché in fondo il tema è questo: gli algoritmi scelgono per noi ma, contestualmente, ci portano a scegliere ciò che vogliono loro. Come fanno? Attraverso l’intelligenza artificiale e grazie ad aggiustamenti marginali dei pesi numerici che gli permettono di analizzare i dati a una velocità non sostenibile dagli umani. Ecco il primo vulnus: quei dati sono analizzati in assenza di contesto. All’algoritmo mancano per definizione le valutazioni soggettive, qualitative ed etiche che sono alla base delle decisioni umane. Ma visto che l’algoritmo impara a una velocità esponenziale e manca della consapevolezza del contesto, la sua crescita comporta un alto rischio di deviazioni ed errori destinati a propagarsi velocemente.

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Tornando a Massimo Chiriatti, una sua ragionata analisi: «Spesso citiamo il potere dei dati paragonandoli alla ricchezza per chi possiede il petrolio, ma esso si è generato dalla stagnazione secolare di fossili ed è in quantità finite. I dati, invece, sono illimitati e si creano esponenzialmente dall’azione di macchine e persone. Dal lato della qualità, una goccia di petrolio è uguale all’altra. Mentre il dato ha sempre una storia, non è fungibile: ognuno è diverso dall’altro. I dati sono beni immateriali e quindi impalpabili, per ottenere valore dalla loro personalizzazione dobbiamo elaborarli per estrarre informazioni e ottenere la conoscenza desiderata». In pratica i dati per poter avere valore devono essere utilizzati il più presto possibile. Ed è proprio qua che il fattore umano si fa rilevante. Per attenuare il rischio dell’egoismo degli algoritmi è necessario monitorare costantemente che i risultati elaborati dalle macchine siano neutri ovvero non influenzati dall’autore o dai contenuti. Di fatto questa attività di vigilanza è l’aspetto strategicamente più sensibile dell’intera catena perché è l’unico elemento che può riportare al centro il giudizio umano. E se la decisione ultima è rimessa al giudizio umano quel giudizio avrà sempre più valore. In caso contrario anche un algoritmo estremamente efficiente può ingenerare problemi sociali. Per la semplice ragione che il suo funzionamento non è finalizzato all’interesse dell’individuo o all’utilità sociale, ma solo all’efficienza sistemica e industriale di cui l’algoritmo è parte funzionale.

Come uscirne? Imparando a non utilizzare la tecnologia in modo passivo. Il primo passo è pretendere assoluta trasparenza circa l’uso dei dati utilizzati. Conoscere è la prima forma di autodifesa. Un’autodifesa che potremmo, paradossalmente, attuare con l’imprevedibilità: se fossimo particolarmente geniali o avessimo una personalità molto complessa o imprevedibile, non rientreremmo nelle formule programmate e con noi l’algoritmo sarebbe spuntato perché non sarebbe messo in condizione di leggere in modo coerente le nostre azioni online. Banalizzando: navigare su un sito che non ci interessa, mettere un like a un post che disapproviamo, non risolverebbe il problema degli algoritmi egoisti ma ci potrebbe tutelare dai meccanismi predittivi di algoritmi che hanno la pretesa di comprenderci e l’obiettivo di condizionarci.

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Pc, laptop o smartphone: la nostra vita nelle stanze dei bottoni. Così cambia la casa

Pc, laptop o smartphone: la nostra vita nelle stanze dei bottoni. Così cambia la casa
Pc, laptop o smartphone: la nostra vita nelle stanze dei bottoni. Così cambia la casa

La conosciamo meglio di qualsiasi altro luogo. È uno dei nostri primi pensieri, ciò a cui i nostri sforzi propendono e il posto dove non vediamo l’ora di tornare, e magari restare per un po’, con chi amiamo o in beata solitudine. Insomma, è sempre stata lì, eppure sembra che soltanto adesso abbiamo realmente scoperto la casa. E ci è voluta una pandemia, un’emergenza mondiale senza precedenti, per scoprire le potenzialità di uno spazio che, ora più che mai, possiamo considerare davvero nostro. Potrebbe sembrare paradossale, perché le tecnologie che oggi reputiamo indispensabili e che ci stanno portando a ridisegnare i nostri spazi privati le avevamo già a disposizione da anni, eppure le avevamo sempre considerate poco più che accessori, quando addirittura non dei giocattoli.

IL CENTRO

Prima di tutto una connessione che fosse stabile e potente, e che potesse funzionare al meglio su tanti dispositivi connessi contemporaneamente. Ma anche un laptop veloce, con uno schermo di dimensioni e definizione sufficienti per poter lavorare molte ore senza affaticare la vista, oppure un bel tablet, da cui navigare sui social network, chattare via Zoom con i parenti o con gli amici e, perché no, da cui guardare la propria serie tv preferita comodamente stesi a letto. Senza contare la tv, infine, che è ritornata a essere, curiosamente un po’ com’era negli anni ‘50, un vero e proprio centro dell’intrattenimento domestico, l’oggetto attorno al quale passare lunghe serate di svago, o surfando tra le varie piattaforme video in streaming, o immergendosi nelle appassionanti sfide interattive offerte dalle console di nuova generazione. Una tv che, a differenza di quelle con il tubo catodico degli anni ‘50, sono grandi, sottili, ultradefinite grazie allo standard del 4K, e soprattutto “smart”, cioè connesse.

IL LAVORO

Abbiamo riscoperto la casa, e nel farlo abbiamo capito che in quelle stesse stanze potevamo trovare l’ufficio, la scuola, il cinema, i negozi, gli amici. Partiamo proprio dal lavoro, il cosiddetto “home working” che nei mesi che verranno dovremo riuscire a trasformare in “smart working”. Come spiega Alessandra Todde, sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico: «Una circostanza drammatica come la pandemia che stiamo vivendo può essere un’opportunità in tal senso. In un Paese come il nostro, dove nonostante gli sforzi degli ultimi anni c’è ancora poca cultura del digitale, ora non dobbiamo solo ripensare i mezzi di lavoro, ma soprattutto rinforzare il patto di fiducia tra aziende e dipendenti, che passa da una maggiore responsabilizzazione di questi ultimi. Ma è chiaro: affinché lo smart working possa essere un reale vantaggio, tanto per le aziende quanto per i lavoratori, è necessaria un’adeguata infrastruttura tecnologica, che a casa dev’essere equivalente a quella dell’ufficio». Quindi attenzione, oltre ai dispositivi (che spesso le aziende mettono a disposizione), anche alla postura e al luogo in cui si lavora, che deve essere tranquillo e il più possibile silenzioso. Lo smart working, per usare le parole di Todde, «non è una bacchetta magica con cui aumentare l’efficienza dei lavoratori. Dev’essere un percorso condiviso».

IN CLASSE

Un percorso che per ora è stato per forza di cose però piuttosto precipitoso, così come è stato quello della didattica a distanza (la cosiddetta “dad”), che se da una parte ha confermato quanto i più giovani fossero già pronti alla transizione tecnologica (spesso a differenza dei genitori), dall’altra ha posto l’attenzione anche sul fenomeno del “digital divide” Un fenomeno che riguarda sia la capacità di utilizzo delle nuove tecnologie (il che è un problema generazionale) sia le possibilità di accesso alle stesse: per quanto oggi dotarsi di strumenti hi-tech sia abbastanza alla portata di tutti, in questo caso le differenze economiche si fanno notare, specialmente se si parla di studenti.

I NEGOZI

C’è da dire che la tecnologia, di fondo, resta comunque molto democratica, e a dimostrarlo con forza, durante questa pandemia, è stato l’e-commerce. Un fenomeno che è letteralmente esploso nel nostro Paese: il lockdown ha infatti improvvisamente messo centro, periferia, nord e sud sullo stesso piano. Fare la spesa, comprare un libro, trovare un pezzo di ricambio per la cucina o ordinare una pizza è diventato, a seconda dei punti di vista, facile o difficile per tutti. Chi vive a due fermate di metro dalle vie dello shopping e chi invece se ne sta in un casolare in campagna si sono ritrovati, entrambi, a fare ordini con lo smartphone in mano. Con il risultato che il primo ha capito una comodità in più, il secondo ha scoperto di avere a portata di clic quel tipo di birra che non era mai riuscito a trovare al supermercato. Per fare tutto questo, molti hanno anche imparato a usare gli assistenti vocali, quei divertenti altoparlanti da mettere in soggiorno con cui poter interagire e magari anche poter ascoltare il singolo di Billie Eilish appena uscito tramite Spotify. Quegli stessi altoparlanti che abbiamo invitato a entrare in casa nostra e che ora stanno lì, in perenne ascolto, in attesa di un cenno che permetta all’algoritmo di conoscerci più a fondo e di offrirci servizi sempre più personalizzati. Perché ora che casa è ancora più nostra, restare davvero da soli è anche molto più difficile.

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Cinque trend: lenti Hi-tech e icone anni ’50

Cinque trend: lenti Hi-tech e icone anni '50
Cinque trend: lenti Hi-tech e icone anni '50

Alimentazione e mobilità, rispetto dell’ambiente,  giochi e nuovi modi di cucinare: ecco tutte le curiosità da non lasciarsi sfuggire girando tra i siti internet.

1 –  Compensare le emissioni con un albero di avocado

Un albero di avocado nella sua vita assorbe 800 kg di anidride carbonica: quanta noi ne produciamo in un mese. “Adottare” uno o più alberi e sostenere la loro coltivazione in Paesi tropicali, dove la CO2 viene assorbita di più, è il modo migliore per compensare la nostra impronta ambientale e sostenere piccole economie. Prezzi da 14 euro. 

2 – Tv, cellulare e musica tutto negli occhiali Huawei

Gli occhiali Huawei X Gentle Monster Eyewear II non servono solo a proteggere la vista: permettono di ascoltare musica, parlare al telefono o guardare una serie tv. I quattro modelli – prezzo base 299 euro – promettono chiarezza audio grazie all’ampio diaframma e funzionano con un solo tocco grazie alla tecnologia touch sulle aste.

3 – La magia dei mattoncini Lego incontrastati re dell’e-commerce

C’è un e-commerce che non conosce crisi: è quello della Lego, i cui ricavi secondo gli ultimi dati sono cresciuti durante i diversi lockdown. Sul sito della casa madre, tra mattoncini tradizionali e digitali, l’esclusiva e natalizia “Casa degli elfi” (94,99 euro) ma anche le tendenze del “Rebuild the world”.

4 – Fermentazione, la nuova cucina che guarda al passato

Tra i grandi chef la tendenza è la fermentazione, una tecnica che utilizza fermenti vivi per conservare il cibo e crearne di originali. Così era fatto il garum romano e così nasce lo yogurt. Ora i cuochi controllano processo e tempi per creare sapori differenti. Se si fa a casa, attrezzi a partire da 12,99 più il barattolo.

5 – Fiat 500e, il mito diventa elettrico. Tre versioni e due livelli di autonomia

Il fenomeno 500 non smette di stupire. Parliamo del primo veicolo elettrico a batteria Fiat, basato su una piattaforma completamente nuova. Frutto di un lungo lavoro e ingenti investimenti, punta a rivoluzionare la mobilità in Italia. Tre le versioni: berlina, cabrio e 3+1 con batteria da 24 o 42 kWh. Autonomia fino a 320 km.

Marghera cento anni dopo, la rinascita sostenibile

Marghera cento anni dopo, la rinascita sostenibile
Marghera cento anni dopo, la rinascita sostenibile

Venezia, la città sospesa sull’acqua miracolo di architettura e ingegneria, costruisce il futuro. Il Mose – la grande barriera di paratie mobili – dopo quasi 6 miliardi di euro investiti, finalmente la protegge dalle grandi maree. E sulla terraferma, a Porto Marghera, da sei anni opera con successo la bioraffineria dell’Eni, primo esempio al mondo di trasformazione green di un impianto tradizionale, uno dei primi in Italia perché realizzato quasi cent’anni fa all’alba della grande area industriale di fronte a Venezia. Un passo concreto di economia circolare che rientra nelle nuove strategie del gigante italiano dell’energia. Col processo brevettato in esclusiva “Ecofining”, Eni è in grado di trasformare materie prime di origine biologica in biocarburanti, in particolare un biocarburante di alta qualità definito in termini tecnici Hvo (Hydrotreated vegetable oil). Una tecnologia che ha permesso di dare nuova vita ecocompatibile alla raffineria veneziana trasformando un asset non più conveniente o in dismissione in un impianto all’avanguardia nel mondo, garantendo nel contempo l’occupazione al migliaio di addetti diretti e indiretti. «Porto Marghera è il laboratorio, insieme a Gela, delle nuove tecnologie per rendere i nostri carburanti sempre più bio e meno impattanti sull’ambiente», sottolinea Michele Viglianisi, responsabile Economia circolare e Bioraffinerie di Eni. «A Marghera – spiega – nel 2014 abbiamo completato la prima riconversione al mondo di una raffineria tradizionale, a Gela stiamo facendo ancora meglio. Entro il 2024 a Marghera sarà attivo l’impianto Eni Rewind capace di utilizzare 150mila tonnellate all’anno di rifiuti organici per produrre bio olio e bio metano, recuperando l’acqua contenuta negli scarti umidi».

MATERIE DI SCARTO

La bioraffineria di Porto Marghera produce biocarburante Diesel+ dal maggio 2014 utilizzando quote sempre maggiori di oli alimentari esausti, grassi animali e altre materie prime di scarto riducendo le emissioni inquinanti del 50% sul ciclo di vita del prodotto. Un progetto bissato in Sicilia, dove la bioraffineria è stata avviata dall’agosto dell’anno scorso con una capacità di lavorazione fino a 750mila tonnellate annue che sarà in grado di trattare quantità elevate di oli vegetali usati e di frittura, grassi animali, alghe e sottoprodotti di scarto per produrre biocarburanti di alta qualità da addizionare al gasolio. Le due bioraffinerie, dal 2021, supereranno la capacità di lavorazione di un milione di tonnellate di biocarburanti e non utilizzeranno olio di palma dal 2023, il tutto coinvolgendo le multiutility di Venezia e Roma per creare sinergie di riciclo lungo la filiera. Nel campo della raffinazione Eni sta sviluppando anche soluzioni che consentano la produzione di bio olio combustibile a basso contenuto di zolfo per combustibile marino o da inviare a un successivo stadio di raffinazione per la produzione di biocarburanti da impiegare nei trasporti.

Un impianto pilota è stato realizzato a Gela da Eni Rewind, che ha già investito nel sito di Porto Marghera 300 milioni per le attività di risanamento ambientale. Sono aperti tavoli tecnici con le multiutility di Roma, Firenze e Venezia per studiare possibili soluzioni industriali per la trasformazione di rifiuti organici e solidi urbani in prodotti energetici con processi fermentativi per la produzione di bio metano e di gassificazione ad alta temperatura per ottenere metanolo e idrogeno. Si guarda anche all’idrogeno. «A San Donato Milanese e sulla terraferma veneziana saranno realizzate due stazioni di rifornimento – spiega ancora Michele Viglianisi – Dopo l’accordo con Toyota circoleranno almeno 20 vetture per sperimentare la mobilità a idrogeno».

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I NUMERI

Il gruppo ha già investito 300 milioni per il risanamento ambientale dell’area

Per la riconversione della raffineria di Venezia sono stati investiti dall’Eni circa 180 milioni di euro; a Gela a oggi sono stati spesi oltre 300 milioni di euro ai quali si aggiunge l’investimento in corso per la realizzazione dell’impianto per il pre-trattamento delle biomasse. Ulteriore capitolo riguarda gli investimenti di Eni Rewind: nel sito di Porto Marghera, il gruppo ha investito – a giugno 2020 – 300 milioni per le attività di risanamento ambientale effettuate con demolizioni, bonifica dei suoli e della falda. Per il completamento degli interventi si prevede una spesa di ulteriori 150 milioni, di cui circa 65 milioni per la gestione degli impianti per il trattamento delle acque di falda nei prossimi 15 anni. Per la realizzazione dell’impianto di Eni Rewind Waste to Fuel (dai rifiuti combustibile più pulito) il gruppo ha investito e investirà circa 80 milioni a Marghera, tre milioni è costato il W2F pilota di Gela. Per interventi ambientali eseguiti in tutta Italia, il gruppo Eni ha speso dal 2003 a oggi 3 miliardi, 800 milioni solo nel 2019 per bonifiche e gestione rifiuti.

Aranzulla: Instagram e Dad, che dubbi ragazzi

Aranzulla
Aranzulla

Nessuna disparità di genere in Rete. O, almeno, non tra quelli che cercano risposte ai mille quesiti che internet pone. E nessuna distinzione netta di età o di lavoro. «A differenza di altri siti, Aranzulla.it non ha un target specifico. Ad esempio, la ripartizione tra traffico maschile e femminile è 58% – 42%, quindi molto equilibrata. Anche sulle fasce d’età che sono distribuite in gruppi di 9 anni, la percentuale degli utenti del sito corrisponde ai gruppi che frequentano internet, quindi una ripartizione omogenea». Salvatore Aranzulla, 30 anni, siciliano di Caltagirone, è il divulgatore informatico più famoso d’Italia. Il suo Aranzulla.it è il sito internet più visitato in Italia per quanto riguarda il settore tecnologia, con una quota di mercato del 40%: quindi 4 italiani su 10 che cercano informazioni o soluzioni riguardanti la tecnologia vengono qui. Ogni giorno il sito ha tra le 600 e le 800 mila visite (dati Google Analytics). Su Aranzulla.it gli utenti trovano soluzioni grazie a delle guide semplici da seguire, anche per chi non ha conoscenze di tecnologia. «Aranzulla.it nasce nel 2008 come sito personale, all’inizio era gestito unicamente da me. Nel corso degli anni ho creato un team di collaboratori sia per la parte editoriale sia per quella tecnica».

Come vengono decisi i temi da affrontare? Fate riferimento alle richieste degli utenti o siete voi che anticipate i temi?
«È un sistema misto. Abbiamo una tecnologia proprietaria che si chiama “Sistema dei titoli” che attraverso un’intelligenza artificiale prende tutte le richieste fatte dagli utenti sui motori di ricerca ed estrapola quelle che riguardano la tecnologie e le categorizza. Questo ci permette di capire cosa scrivere. Sul sito pubblichiamo articoli nuovi ma anche aggiornamenti di articoli già esistenti, perché le tematiche restano, ma gli strumenti cambiano. Ad oggi abbiamo un database di 14 mila risposte».

Sul sito in alto in alto c’è la grande ripartizione su tre macro temi: computer, telefonia e internet. Quale è quella che ha maggiori richieste?
«Questa tripartizione è ancora quella originale del 2008. All’epoca la categoria computer era la più letta e richiesta, e conteneva informazioni su come utilizzare software e sistema operativi; poi c’era la parte sulla telefonia, ma era poco frequentata e si occupava solo di temi come ad esempio come fare chiamate dall’estero o come parlare con il servizio clienti. Nel corso del tempo, la categoria telefonia ha soppiantato sostanzialmente le altre. La maggior parte del traffico oggi riguarda gli smartphone».

Sarà così anche nel futuro?
«Penso di sì. Ci sono intere generazioni che non hanno un computer, ma hanno uno smartphone. Oggi il computer è tornato ad essere lo strumento usato prevalentemente in ambito lavorativo».

Quali sono le pagine più viste su Aranzulla.it?
«La cosa curiosa è che le tematiche cambiano di continuo e riflettono il momento storico che stiamo vivendo. Nelle ultime settimane gli articoli più letti sono prevalentemente legati allo smart working o alla didattica a distanza: ad esempio come scaricare Google Meet, o come mettere uno sfondo su Zoom, o quali sono i migliori notebook. Al contrario gli articoli più visti nel mese di agosto erano: come cancellare l’account Instagram, come scaricare musica da internet o come capire se ti hanno bloccato su Whatsapp, quindi tematiche più legate al social, al tempo libero e alla parte ludica della tecnologia».

Possiamo dire che Aranzulla.it riflette lo zeitgeist della tecnologia?
«In un certo senso sì. È un osservatorio su cosa le persone stanno facendo e cercando in rete sulla tecnologia».

Perciò il sito è consultato da chiunque. 
«Sì, evidentemente ciascun gruppo cerca cose differenti dall’altro, ma non lo sappiamo con certezza. Probabilmente i più giovani cercheranno informazioni sul funzionamento di Instagram, mentre la fasce più mature su come avere una PEC. Il sito cerca di soddisfare le esigenze e di risolvere i problemi di tutti».

Si dice che la pandemia e il lockdown abbia generato una forte accelerazione digitale, dal tuo osservatorio confermi questa affermazione e se sì, in che direzione?
«Su Aranzulla.it abbiamo delle guide all’acquisto che linkano sostanzialmente a dei siti di e-commerce, principalmente Amazon, nelle quali si possono comprare i prodotti. Se l’utente compra il prodotto, il sito ci riconosce una piccola percentuale del venduto: nei mesi di marzo e aprile abbiamo duplicato le vendite tracciate. Quindi l’acquisto di tecnologia c’è stato, dobbiamo poi capire se poi i prodotti sono stati effettivamente utilizzati sul lungo periodo».

Quali saranno gli sviluppi di Aranzulla.it? 
«Continueremo a produrre e aggiornare contenuti, ma siamo fortemente conservativi. Non abbiamo app, non produciamo video o podcast. La forma testuale è risultata il compromesso migliore e la più semplice da consultare per gli utenti».

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Paolo Bonolis: tech da asporto. Cosa ci toglie la scorciatoia della vita 2.0

Ho grande fiducia, rispetto e speranza nella tecnologia, ma intravedo penombre per quella che potremmo definire “tecnologia da asporto”. Ora sto scrivendo queste righe con una penna, non perché contrario ai moderni mezzi di scrittura, ma perché non voglio perdere, con il loro abuso, tutte quelle competenze che ho impiegato anni per ottenere e costruire. Quali? La calligrafia, ad esempio. Un vezzo? Può darsi… Penso, però, anche alla competenza mnemonica; alla serenità nelle relazioni interpersonali; al gusto dell’attesa; alle esperienze sensoriali che si provano nel guardarsi intorno, osservando cose vere e non immagini bidimensionali. E, più di tutto, penso alla serenità di accettare la fatica necessaria per ottenere la conoscenza. È vero che – fin dall’alba dei tempi – l’uomo ha studiato ogni sistema per ridurre le proprie fatiche. Forse oggi, però con l’utilizzo della tecnologia – non solo per migliorare la nostra vita, ma ormai per condizionarla – stiamo raggiungendo un effetto paradosso. Non più essa al nostro servizio, ma noi servi ipnotizzati dalle sue illusioni.

Con i nostri iPhone sempre in mano, viviamo non solo una postura diversa ed un continuo stato di allerta ai loro richiami, ma perdiamo sempre più velocemente le nostre competenze umane. Vi prego, perciò, approvate presto una legge che ne impedisca l’uso prima dei sedici anni. Lasciate che i ragazzi sviluppino anche competenze analogiche e che accettino la fatica come unico mezzo per dare valore e permanenza a ciò che si ottiene. È incredibile come vogliamo tutto sempre più velocemente, per rimanere sempre più fermi. Della tecnologia godiamo l’uso, fuggendone l’abuso. Il futuro tecnologico digitale è ciò che attende i nostri figli; con esso potranno raggiungere traguardi di scoperta e qualità della vita inimmaginabili per la mia generazione. Ma a patto che siano l’Uomo e le sue qualità a guidare il mezzo, senza cadere nell’illusione del “tutto più facile” che la tecnologia prêt-à-porter offre. La nostra velocità, i nostri tempi e le competenze naturali ci rendono padroni, attori consapevoli del nostro destino. Se rifiutiamo la fatica che serve per rimanere Umani, diverremo deboli e servi della nostra stessa scienza. Impariamo a distinguere: i mercati, anche quelli tecnologici non fanno prigionieri. Lo ripeto spesso ai miei ragazzi, ma come intuì Guy Debord «i figli assomigliano sempre più ai loro tempi che ai loro padri».

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Davide Tabarelli: transizione energetica? Pazienza e tecnologia

Transizione energetica? Pazienza e tecnologia
Transizione energetica? Pazienza e tecnologia

Intendiamoci, nella realtà non funziona come con Archimede di Topolino che con Eureka annuncia le sue scoperte, invece le nuove soluzioni arrivano lentamente, con miglioramenti di tecniche conosciute da anni. La transizione energetica, nell’immaginario collettivo, è qualcosa dietro l’angolo, che si realizzerà non appena faremo la prossima scoperta con qualche geniale trovata. È anche vero che gli obiettivi che ci siamo posti sono talmente ambiziosi, al limite del realistico, che solo qualche nuova rivoluzione tecnologica renderà possibile il loro raggiungimento. Le fonti rinnovabili, uno dei pilastri della transizione, al 2030, fra 10 anni, dovrebbero contare per il 32% dei consumi totali di energia dell’Italia, contro un livello che nel 2019, prima della pandemia, era del 18%, 5 punti in più del 2010. Il prossimo balzo di ben 14 punti si dovrebbe ottenere in gran parte con il fotovoltaico, quella bellissima tecnologia che trasforma i raggi del sole in elettricità, grazie ad una magia della fisica che Einstein, per primo, spiegò intorno al 1905, studio che gli valse il premio Nobel della fisica del 1922. L’Italia è diventata leader mondiale per queste installazione, con una quota sulla produzione complessiva di elettricità dell’8%, uno dei valori più alti insieme a quello della Germania.

LO SCENARIO

Un primato di cui essere orgogliosi, motivato da diverse ragioni, con la principale riconducibile ai generosi incentivi che tuttora paghiamo in bolletta. Da quando, nel 2012, i sussidi sono stati tagliati ai nuovi impianti, la crescita ha frenato e il ritmo di espansione è di circa 400 megawatt all’anno, quando, invece, sarebbero necessari 3000 MW per passare dagli attuali 22000 a 52000 megawatt. Un megawatt equivale a 1000 chilowatt e i pannelli che si vedono sui tetti di casa sono di solito per una capacità di 3 chilowatt, per una superficie di 20 metri quadrati. L’obiettivo dei 52000 megawatt è nel documento fondamentale della transazione energetica, approvato quest’anno, il PNIEC, piano nazionale integrato energia e clima (https://www.mise.gov.it/index.php/it/2040668). Tutti, a parole, vogliamo la transizione, ma poi, quando c’è da costruire un impianto fotovoltaico di grande dimensione, ci sono sempre un comitato contro e le autorità locali che non danno i permessi. Da tempo quelli su terreni sono ostacolati, perché si sottrae spazio alla vocazione dei territori, che è sempre quella di un’agricoltura sostenibile, spesso biologica, ma che alla fine di reddito ne produce poco per i contadini che, invece, potrebbero ottenere qualche guadagno con i pannelli. Viste le difficoltà a fare grandi impianti, le speranze sono riposte nelle piccole unità delle abitazioni. Anche qui la crescita è troppo lenta, nonostante una straordinaria caduta dei costi di installazione, passati da 7 mila euro per chilowatt del 2010, agli attuali 1500 euro. Spariti gli incentivi, anche qui, mettere i pannelli sul tetto è diventato meno conveniente, ma qualche speranza si è riaccesa con il Superbonus 110% che dovrebbe aiutare con la riduzione delle tasse.

Qui si incontra uno degli sviluppi più interessanti delle nuove tecnologie, quello legato alle batterie, che servirebbero a stoccare l’energia elettrica dagli impianti fotovoltaici prodotta di giorno, quando c’è tanto sole, da consumarsi la sera, quando si torna a casa e si usa la lavatrice, si accende il climatizzatore e si ricaricano le batterie dell’auto elettrica, per chi se la può permettere, e per chi ha la villetta. Si tratta di un’idea tanto facile da spiegare quanto difficile da realizzare, come sempre accade per le rinnovabili. Tutti conosciamo le batterie, le pile nei telecomandi, che non si ricaricano, quelle dei telefonini, che si ricaricano, a volte quelle delle auto elettriche, che si ricaricano molto lentamente. È una tecnologia su cui la ricerca da secoli investe, il nostro Volta alla fine del ‘700 ne realizzò il primo prototipo, vicino a Como, dove, per questo, gli è stato dedicato un tempietto. Comprare una batteria da mettere sul terrazzo da 3 chilowattora, può costare oltre 8 mila euro e ogni chilowattora scaricato dalla batteria viene a costare 30-40 centesimi di euro, quando il chilowattora che arriva dai fili ce lo fanno pagare in bolletta meno di 20 centesimi. L’anno scorso il Nobel della chimica è stato assegnato proprio a chi ha permesso i miglioramenti più sensibili sulle batterie, quelle al litio, che oggi tutti usiamo nei telefonini, ma per il terrazzo, la strada è ancora lunga e tortuosa, come accade sempre con le grandi rivoluzioni.

* presidente di Nomisma Energia

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La città delle idee è un’isola greca eco e felice. Da Volkswagen a Toyota, ecco i progetti

La città delle idee è un'isola greca eco e felice. Da Volkswagen a Toyota, ecco i progetti
La città delle idee è un'isola greca eco e felice. Da Volkswagen a Toyota, ecco i progetti

La città del futuro non sarà disegnata dagli architetti, dagli urbanisti o dai sociologi, ma dalle tecnologie che la renderanno intelligente o smart: una città che sarà interamente connessa e percorsa da veicoli elettrici governati dall’intelligenza artificiale e alimentati da energie pulite. Per fare tutto questo, i costruttori di automobili stanno già investendo centinaia di miliardi e allargano il loro perimetro in nuovi ambiti, a tal punto che stanno elaborando piani che riguardano la conformazione e l’organizzazione di quella che potrebbe essere la smart city del futuro, il luogo in cui le nuove tecnologie possono creare un nuovo modello di convivenza. E sono già passati all’azione.

IL MODELLO

Secondo Volkswagen, la città ideale del futuro è l’isola Astypalea o Stampalia. Il costruttore tedesco e il governo greco hanno già firmato una lettera di intenti per trasformare il paesaggio da cartolina di questi 100 km quadrati piazzati nel blu dell’Egeo in un’isola modello dove mettere in atto la strategia che accomuna Volkswagen, la Grecia e tutta l’Unione Europea: diventare carbon-neutrali entro il 2050. Obiettivi decisamente ambiziosi, ma le idee, come enti concettuali, sono nate proprio in Grecia ad opera di un certo Platone che ne “La Repubblica” immaginò la kallipolis, la “bella città” come città ideale, dove tutti possono vivere in armonia ed essere felice coltivando gli obiettivi comuni. Anche Aristotele vide nella città un luogo più che fisico. «Un profondo desiderio ci domina – scrisse lo Stagirita – vogliamo avere ancora delle città in cui vivere, non soltanto sicuri e sani, ma anche felici». Astypalea forse non diventerà la città perfetta, ma nel corso di 6 anni sarà completamente trasformata guardando a ciò che crediamo possa creare le premesse migliori per convivere in armonia con il pianeta. Il sistema energetico, ora basato per intero sugli idrocarburi, sarà reso rinnovabile al 100% grazie all’eolico e al solare e i due bus e 1.500 mezzi che circolano sull’isola saranno sostituiti da 1.000 tra auto, scooter, veicoli commerciali e bici a pedalata assistita tutti elettrici, disponibili attraverso servizi di car sharing e ride sharing e riforniti da circa 230 colonnine di ricarica. Diventeranno elettrici anche i mezzi per la polizia, le autombulanze e tutte le vetture di servizio della municipalità locale. Un sistema teso a migliorare la vita dei 1.300 isolani e reggere l’impatto dei 72 mila turisti che ogni anno sbarcano su quest’isola che si è già dichiarata “smoke free” e vuole diventare la “Smart Green Island” del Dodecaneso, la perla verde delle Cicladi dove divertirsi ad emissioni zero. Per Volkswagen invece si tratta di qualcosa di terribilmente serio visto che il gruppo di Wolfsburg investirà da qui al 2025 nella mobilità elettrica 33 miliardi di euro con l’obiettivo di lanciare 75 nuovi modelli entro il 2029.

ALLE PENDICI DEL VULCANO

E se Volkswagen immagina la città ideale come una sorta di ristrutturazione energetica di un’isola, Toyota immagina di costruirla dalla prima all’ultima pietra ai piedi un antico vulcano a partire dal 2021. Si chiamerà Woven City e sorgerà alle pendici del monte Fuji, nei pressi del centro di ricerca del marchio giapponese e del famoso circuito, una volta teatro della Formula 1 e oggi diventato la pista di prova per i modelli del costruttore di Nagoya. Un’idea di futuro che però ha nel nome le radici nel passato. “Woven” in inglese è infatti il participio passato del verbo “to weave” che vuol dire tessere, intrecciare e Toyota, che nacque come azienda produttrice di telai, vede nella tessitura la metafora di una società dove gli uomini e la tecnologia possono intrecciare i loro destini per costruire l’ordito di un mondo migliore. Woven City sorgerà su un’area di circa 70 ettari e sarà una vera e propria smart city perché non ci saranno solo energie rinnovabili prodotte attraverso l’idrogeno e auto ad emissioni zero, ma anche mezzi a guida autonoma, case dotate di domotica avanzata e robot ad intelligenza artificiale per assistere gli anziani e i diversamente abili e infine una connettività totale realizzata attraverso gli standard più avanzati. Un vero e proprio laboratorio vivente nel quale l’utopia della smart city si mette alla prova in una provetta di mondo reale, come se fosse il vaccino in grado di sconfiggere tutti i mali delle nostre città.

IL PROGETTO

Il progetto è stato affidato all’architetto danese Bjarke Ingels, già autore del World Trade Center di New York, della Lego House in Danimarca e delle sedi di Google a Mountain View e a Londra. La Woven City avrà 3 tipi di strade: una per i veicoli più veloci, una per il traffico a bassa velocità e la terza saranno viali riservati ai pedoni. I quartieri saranno residenziali e lavorativi allo stesso tempo, per favorire la socialità, e le costruzioni saranno in legno sostenibile utilizzando tecniche antiche giapponesi con l’ausilio di sistemi robotizzati. Ci sarà un sistema integrato di raccolta e riciclo delle acque e la vegetazione sarà spontanea o coltivata con tecniche idroponiche. Gli abitanti di Woven City saranno all’inizio circa 2 mila tra coppie di pensionati, commercianti, personale dei partner tecnici che parteciperanno al progetto, scienziati e dipendenti di Toyota con le loro famiglie incaricati di fare “genchi genbutsu”, quello che, secondo la filosofia Toyota, è “andare a vedere di persona” per scoprire se davvero la smart city ci può rendere felici.

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Alec Ross: «Tocca a Biden sciogliere il gelo Usa-Cina»

Alec Ross: «Tocca a Biden sciogliere il gelo Usa-Cina»
Alec Ross: «Tocca a Biden sciogliere il gelo Usa-Cina»

Quando atterri a Pechino o Shanghai, fingiamo di essere ancora in epoca pre-Covid, e accendi lo smartphone scopri che i servizi Google non funzionano, Facebook neppure e se provi a utilizzare la rete WiFi gratuita dell’aeroporto senza un profilo WeChat (il social onnipresente cinese) riesci a fare poco o nulla. Basta questo a spiegare come il ban, il divieto, che Donald Trump, ha disposto contro il colosso cinese Huawei, abbia radici lontane. «Per gli americani la risposta ai divieti tecnologici imposti dai cinesi sono ragionevoli e simmetrici» avverte Alec Ross, visiting professor alla Bologna Business School, già consulente di Barack Obama e Hillary Clinton.

RAPPORTI

Dietro alla mossa di Trump, ci sono ragioni economiche, certo, perché la crescita irresistibile di Huawei e più in generale della Cina, è un problema, ma ci sono soprattutto motivazioni geopolitiche. Huawei già ha avuto un ruolo importante, in Occidente, nella realizzazione delle reti 4G, ma prima dello stop del presidente Usa, lo stava confermando anche per quelle 5G. Per gli americani, Huawei non è una brillante compagnia privata, ma è una entità legata a doppio filo con lo Stato e con l’Esercito cinese. E se il Regno Unito ha seguito gli Usa in Italia, la situazione è maggiormente fluida. «Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha più volte espresso le sue preoccupazioni in relazione all’utilizzo di tecnologia cinese nel campo delle Tlc» ha spiegato il presidente del Copasir, Raffaele Volpi; il segretario di Stato americano, Mike Pompeo ha fatto pressioni sull’Italia perché freni l’avanzata cinese nella realizzazione di infrastrutture 5G. In sintesi: se per il comune consumatore italiano la revoca del ban di Trump riguarda soprattutto la possibilità di usare il Play Store di Google sul nuovo smartphone Huawei (che intanto ha sviluppato un servizio operativo alternativo a quello di Android), su scala mondiale, il futuro del 5G è uno degli scenari più delicati di geopolitica. E cosa succederà da gennaio quando alla Casa Bianca s’insedierà Joe Biden? Difficile pensare a una inversione a U. Cambieranno i modi, le strategie della trattativa, ma non il risultato finale.

AFFARI

Alec Ross è stato consulente dell’amministrazione Obama per le politiche tecnologiche e consulente per l’innovazione di Hillary Clinton. Spiega: «In un’amministrazione Biden, problemi come il 5G saranno visti nel contesto più ampio delle relazioni Usa-Cina. Trump ha considerato tutti i negoziati come se avessero un vincitore e un perdente. Sebbene la concorrenza tra Stati Uniti e Cina sia reale, non deve essere a somma zero. Questo non è il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Biden ha una comprensione sofisticata delle grandi relazioni di potere, il 5G sarà valutato come sussidiario di questioni più ampie di concorrenza e collaborazione tra le tecnologie. Questo, a sua volta, sarà visto come sussidiario alla relazione più ampia». Saranno riaperte le porte a Huawei? No, lo scenario non è così semplice. Ricorda il professor Ross: «Per quanto riguarda i divieti tecnologici, ciò che alcuni europei potrebbero considerare controverso, la maggior parte degli americani ha ritenuto ragionevole o simmetrico. Amazon, Facebook, Google e molte altre società americane non possono fare affari in Cina. La Cina ha bloccato il Paese da 1,4 miliardi di persone alla tecnologia americana, quindi la lotta contro le tecnologie cinesi sensibili alla sicurezza non è vista come controversa. Per ogni tecnologia cinese che l’America tenta di bloccare, la Cina blocca dieci tecnologie americane». Cosa succederà se l’Italia non interromperà i rapporto con Huawei? «Se l’Italia spingesse forte sul 5G cinese nei suoi sistemi di telecomunicazioni non otterrebbe la risposta rabbiosa che avrebbe avuto da un’amministrazione Trump. Ma Biden vorrebbe avere un confronto sulle questioni relative alla sicurezza e sul 5G cinese». Sì, il problema è un po’ più ampio del fatto che sull’ultimo sofisticatissimo smartphone Huawei non potete usare Google Maps.

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L’hacker entra in salotto, occhio alla password

L'hacker entra in salotto, occhio alla password
L'hacker entra in salotto, occhio alla password

Siamo circondati da oggetti connessi, già quando ci alziamo dal letto la mattina. Sveglie intelligenti, cronotermostati che conoscono le nostre abitudini sul riscaldamento, assistenti vocali che ci informano sulle notizie, ci fanno scegliere la musica, le smart tv che ci suggeriscono film e serie, le telecamere di sicurezza. Insomma la lista è lunga e si allungherà sempre più. Ma se fino a poco tempo fa dovevamo preoccuparci solo delle password di accesso a computer e smartphone, oggi, per ogni device abbiamo una lunga lista di lettere e numeri, che fatichiamo a ricordare. Così, la cybersicurezza in casa, è diventata un’attività quotidiana, spesso noiosa, che in molti sottovalutano, rischiando attacchi di hackers. Lo strumento hi-tech, da risorsa è diventata un potenziale pericolo che mette in bilico la nostra privacy.

LE INCOGNITE

«L’utente non ha l’immediata consapevolezza dei rischi legati ai device IoT (Intelligence of things) che spesso sono venduti con criticità di sicurezza, password di default non modificabili o procedure di aggiornamento software non intuitive per l’utente, che non avendo le giuste informazioni, non se ne occupa più», precisa Giampaolo Dedola, senior security researcher team di Kaspersky. In casa, chiusa la porta, ci sentiamo sicuri, ma non occuparsi di cybersicurezza equivale a lasciare aperta una finestra ed essere potenzialmente spiati. «Il rischio più grosso per l’utente riguarda la perdita del controllo della propria privacy ed il furto dei dati sensibili. Spesso i dispositivi domestici sono abusati dagli attaccanti per colpire il network. Generano grossi volumi di traffico verso alcuni target, per mandare in tilt i servizi online che coinvolgono anche milioni di persone. Ci stiamo esponendo costantemente a nuove minacce», aggiunge Dedola. Facciamo alcuni esempi pratici, che possono aiutarci a capire quali rischi reali stiamo correndo, iniziando dalle smart tv. «Gli hacker possono spiarci attraverso la telecamera oppure ascoltare le nostre conversazioni». Con l’assistente vocale la situazione si complica. «L’attaccante li usa per l’intercettazione mentale, cioè per capire cosa sta facendo o dicendo l’utente. E soprattutto se è in casa». Per le telecamere di sicurezza siamo nella zona rossa del rischio perché «se connesse all’apertura del portone, permetterebbero anche l’accesso in casa». I nas, i dispositivi network attached storage dove archiviamo i nostri dati, i nostri ricordi, come foto e video, «sono i più esposti su Internet e tra i bersagli preferiti dai cybercriminali». Alla luce di tutto questo, si capisce quanto sia indispensabile imparare a gestire i device domestici. Come possiamo difenderci? «La prima cosa è scrivere password robuste, collegare i dispositivi alla rete solo quando è realmente necessario, altrimenti connetterli alla rete interna per non esporli all’esterno, riducendo di molto il rischio. Infine fare gli aggiornamenti con regolarità», raccomanda ancora l’esperto di Kaspersky.

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IL RECORD DELL’ANNO

Aggressioni web, una ogni 11 secondi

Nel 2020, l’anno della pandemia da coronavirus e per molti anche dello smart working, gli attacchi informatici si sono moltiplicati. Se ne verifica in media uno ogni 11 secondi. E l’obiettivo, tra le mura domestiche, deve essere quello di proteggersi. «Lo scorso marzo, si è verificata una campagna di attacco tramite la compromissione di router casalinghi, esposti su internet con credenziali deboli», spiega Giampaolo Dedola, esperto di cyebersecurity di Kaspersky. Gli hacker trovavano la password provandone alcune molto comuni. «Quando gli utenti provavano ad accedere ad alcuni siti molto noti, venivano dirottati su pagine che li invitavano a scaricare un’app per ottenere informazioni sul Covid, che in realtà rubava la password».
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I CONSIGLI

1 – Proteggere i nuovi acquisti prima della connessione

Tre azioni da non fare assolutamente per evitare i rischi cyber? Mai acquistare un dispositivo IoT e lasciare le password di default inserite dalla casa madre. Mai esporlo all’esterno, cioè alla Rete, se non è stato prima protetto. Anche se può sembrare banale, non bisogna mai dimenticare che nelle nostre case abbiamo un dispositivo sempre connesso, che dobbiamo imparare a gestire con estrema regolarità.

2 – Limitare il raggio d’azione degli apparecchi

Come è possibile separare la rete esterna da quella domestica? Per separare le due reti, è necessario creare una rete guest e poi collegare tutti i dispositivi IoT a questa rete, invece che alla principale. Questo procedimento consente di limitare il raggio di azione degli stessi dispositivi, cioè la loro esposizione, e quindi anche di mitigare gli attacchi di eventuali attacchi malware o altre attività messe in atto dai cybercriminali.

3 – Chiave di accesso di 19 caratteri, può essere anche una frase

In che modo si possono rendere le password più sicure? Una password robusta deve avere più di 12 caratteri, ma anziché usare lettere e segni impossibili da ricordare, è preferibile scrivere almeno 19 caratteri. Un suggerimento utile è quello di mettere insieme tre parole diverse, che creano un’unica frase, molto più semplice da ricordare. Con decine di password da gestire, fondamentale il ricordo al password manager.

4 – Contro le criticità dei router cambiare spesso parola d’ordine

Quale dispositivo domestico è più rischioso? I router sono la componente critica dell’ambiente domestico, perché sono il gateway, il tramite, tra le connessioni di tutti i dispositivi e internet. Spesso svolgono funzioni centrali, quali la distribuzione delle configurazioni usate per gestire correttamente le comunicazioni. Nel caso del router è consigliabile cambiare periodicamente e con ancora maggiore attenzione la password.

5 – Mai cliccare velocemente su termini e condizioni d’uso

È importante leggere le “condizioni d’uso” di un device appena acquistato? Mai firmare o cliccare velocemente sul flag “Termini e condizioni d’uso”, perché spesso si tratta di veri e propri contratti stipulati tra l’azienda e l’utente e contengono clausole che potrebbero intaccare la nostra privacy. Inoltre prima di scaricare un software o una app, è sempre utile cercare informazioni contenute nei commenti di altri utenti.