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L'auto, una riserva di energia: il veicolo come una batteria a quattro ruote anche per la casa

La svolta energetica vive sul fiorire delle fonti rinnovabili che garantiranno un domani molto più sostenibile. Per tutti. Ma il profondo cambiamento del sistema non si ferma certo qui. La rivoluzione coinvolgerà numerose altre parti della filiera energetica perché, grazie al progresso tecnologico, consentirà di utilizzare al meglio la rete di distribuzione dell’elettricità. Un network che sarà in grado di convogliare e di mettere in circolo energia proveniente da un numero molto più elevato di sorgenti e di accumulatori. Un canale di distribuzione più snello, ma nello stesso tempo capace di gestire meglio i picchi di consumo anche nei periodi in cui l’eolico o il solare (le due principali rinnovabili) non sono in condizione di produrre, o almeno lo sono a “potenza ridotta”. Tutto ciò si baserà sul “dialogo”. Gli edifici, anche le abitazioni, non saranno più solo consumatori, ma si trasformeranno anche in produttori. E i veicoli elettrici offriranno le loro potenti batterie per immagazzinare la forza carbon free.

SCAMBIO DI DATI

La utilizzeranno per muoversi ma, quella in eccesso, la renderanno di nuovo disponibile nei momenti più opportuni. Ebbene, le due entità dovranno parlarsi, scambiarsi dati e informazioni per arrivare e rendere possibile lo “scambio di energia”. Uno scenario finora sconosciuto. Con questo inedito approccio perderanno importanza le “grandi centrali” di produzione perché le fonti saranno polverizzate e, magari, sarà direttamente chi la utilizza a generare energia. Ecco quindi che cambieranno le sorgenti (non più fossili ad esaurimento, ma sole e vento che in natura non hanno fine), ma sarà stravolto anche il processo produttivo rispetto a come eravamo abituati a pensarlo. Insomma, a parità di consumo, l’esigenza di energia alla fonte (in ogni caso non inquinante) sarà fortemente ridotta. E le reti potranno alleggerirsi, evitando il rischio di blackout. Già esistono sistemi chiusi, tutti fatti in casa. Uno schema che Tesla ha inserito fra le sue armi iniziali, al pari di una rete di colonnine pubbliche dedicate (spesso gratuite…) e a ricarica rapida. Estremizzando, se si mettono d’accordo, già con le “conoscenze” attuali l’abitazione e l’auto potrebbero essere autosufficienti dal punto di vista della produzione e della gestione dell’energia che può servire per tutti i bisogni. Un’energia ecologica. Lo schema, magari, è più alla portata di una casa “autonoma”, magari con giardino, e non di un appartamento. Con dei pannelli solari di ultima generazione, integrati in modo da non avere impatto estetico, si produce l’energia necessaria che viene immagazzinata in un accumulatore dell’abitazione. Per non esagerare con le dimensioni, entra in aiuto la vettura che già viene definita una batteria a quattro ruote.

Facendo il pieno anche all’auto con una capacità di un centinaio di kWh si può avere a disposizione una quantità di energia più che sufficiente per alcuni giorni, anche se il vento non soffia e il sole si nasconde dietro le nuvole. Tanto la riserva di energia nella batteria dell’auto si può tranquillamente utilizzare. Se non bisogna affrontare lunghi viaggi, infatti, quella contenuta nel serbatoio è esuberante e disponibile in quanto la vettura percorre quotidianamente qualche decina di chilometri ed ha un’autonomia di diverse centinaia. Questo è lo schema base, il sogno alla portata di diventare autosufficienti e non prelevare dalla rete alcun kW di energia (a pagamento). Ma i protagonisti del settore stanno studiando forme diverse e più sofisticate che dovranno consentire di non mandare persa neanche una goccia di energia. Grazie alle fonti rinnovabili, il panorama sarà diverso e il gran numero di veicoli elettrici in circolazione entro pochi anni modificherà possibilità e necessità. Nascerà un nuovo business per accaparrarsi l’elettricità, molto promettente, e attirerà newco che sono alternative ai classici colossi di energia. E poi ci sono i costruttori automobilistici interessati alle spese dei loro clienti e anche le ex compagnie petrolifere che hanno ben chiaro come gli affari legati agli idrocarburi andranno lentamente a scemare e dovranno essere sostituiti. In ogni caso, su una società decarbonizzata sono d’accordo tutti. Solo in Europa nel prossimo decennio verranno investiti quasi 100 miliardi per installare la rete di colonnine per le auto e rifornire di energia i milioni di veicoli sulle strade. Un’opportunità che prima non c’era e che molti vogliono prendersene una parte. Gli automobilisti vorranno i servizi e, oltre ad esigere un punto di rifornimento accessibile, pretenderanno un contratto di ricarica unico ad un prezzo molto conveniente.

LA JOHAN CRUIJFF ARENA

La sinergia bene immobile bene mobile diventerà via via più stretta e il passo successivo già esiste e si chiama V2G (vehicle to grid). L’auto elettrica, oltre a scambiarsi energia con la propria casa, potrà farlo direttamente con la rete pubblica con speciali colonnine che sono in grado di cedere energia nei due sensi (uscita e entrata dalla rete) e di quantificarne il valore che potrà variare in base a fattori diversi (prima di tutto le fasce orarie). Questa tecnologia già esiste, deve solo essere implementata e resa disponibile su larga scala. I primi a pensarci sono stati i giapponesi e in particolare la Nissan. Carlos Ghosn, bisogna riconoscerlo, aveva intuito prima di tutti che stava scoppiando la rivoluzione zero emission e che l’auto, con la velocità della luce, sarebbe diventata carbon free. E la casa giapponese era in questo campo la punta di diamante dell’invidiata Alleanza con Renault. Non usa il V2G (almeno per ora) ma la Johan Cruijff Arena di Amsterdam ha un impianto di illuminazione che produce energia mettendola anche a disposizione per la città e la immagazzina in 150 batterie della Leaf impiegate nella loro seconda vita. Il più grande impianto V2G? E’ in Italia, a Mirafiori, è in fase di espansione sotto le cure di Fca, Terna e Engie Eps, e il prossimo anno sarà abilitato per dialogare con 700 vetture (500e).

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Domotica, privacy messa in pericolo dagli attacchi hacker: occhio alla password

Siamo circondati da oggetti connessi, già quando ci alziamo dal letto la mattina. Sveglie intelligenti, cronotermostati che conoscono le nostre abitudini sul riscaldamento, assistenti vocali che ci informano sulle notizie, ci fanno scegliere la musica, le smart tv che ci suggeriscono film e serie, le telecamere di sicurezza. Insomma la lista è lunga e si allungherà sempre più. Ma se fino a poco tempo fa dovevamo preoccuparci solo delle password di accesso a computer e smartphone, oggi, per ogni device abbiamo una lunga lista di lettere e numeri, che fatichiamo a ricordare. Così, la cybersicurezza in casa, è diventata un’attività quotidiana, spesso noiosa, che in molti sottovalutano, rischiando attacchi di hackers. Lo strumento hi-tech, da risorsa è diventata un potenziale pericolo che mette in bilico la nostra privacy.

LE INCOGNITE

«L’utente non ha l’immediata consapevolezza dei rischi legati ai device IoT (Intelligence of things) che spesso sono venduti con criticità di sicurezza, password di default non modificabili o procedure di aggiornamento software non intuitive per l’utente, che non avendo le giuste informazioni, non se ne occupa più», precisa Giampaolo Dedola, senior security researcher team di Kaspersky. In casa, chiusa la porta, ci sentiamo sicuri, ma non occuparsi di cybersicurezza equivale a lasciare aperta una finestra ed essere potenzialmente spiati. «Il rischio più grosso per l’utente riguarda la perdita del controllo della propria privacy ed il furto dei dati sensibili. Spesso i dispositivi domestici sono abusati dagli attaccanti per colpire il network. Generano grossi volumi di traffico verso alcuni target, per mandare in tilt i servizi online che coinvolgono anche milioni di persone. Ci stiamo esponendo costantemente a nuove minacce», aggiunge Dedola. Facciamo alcuni esempi pratici, che possono aiutarci a capire quali rischi reali stiamo correndo, iniziando dalle smart tv. «Gli hacker possono spiarci attraverso la telecamera oppure ascoltare le nostre conversazioni». Con l’assistente vocale la situazione si complica. «L’attaccante li usa per l’intercettazione mentale, cioè per capire cosa sta facendo o dicendo l’utente. E soprattutto se è in casa». Per le telecamere di sicurezza siamo nella zona rossa del rischio perché «se connesse all’apertura del portone, permetterebbero anche l’accesso in casa». I nas, i dispositivi network attached storage dove archiviamo i nostri dati, i nostri ricordi, come foto e video, «sono i più esposti su Internet e tra i bersagli preferiti dai cybercriminali». Alla luce di tutto questo, si capisce quanto sia indispensabile imparare a gestire i device domestici. Come possiamo difenderci? «La prima cosa è scrivere password robuste, collegare i dispositivi alla rete solo quando è realmente necessario, altrimenti connetterli alla rete interna per non esporli all’esterno, riducendo di molto il rischio. Infine fare gli aggiornamenti con regolarità», raccomanda ancora l’esperto di Kaspersky.

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IL RECORD DELL'ANNO

Aggressioni web, una ogni 11 secondi

Nel 2020, l’anno della pandemia da coronavirus e per molti anche dello smart working, gli attacchi informatici si sono moltiplicati. Se ne verifica in media uno ogni 11 secondi. E l’obiettivo, tra le mura domestiche, deve essere quello di proteggersi. «Lo scorso marzo, si è verificata una campagna di attacco tramite la compromissione di router casalinghi, esposti su internet con credenziali deboli», spiega Giampaolo Dedola, esperto di cyebersecurity di Kaspersky. Gli hacker trovavano la password provandone alcune molto comuni. «Quando gli utenti provavano ad accedere ad alcuni siti molto noti, venivano dirottati su pagine che li invitavano a scaricare un’app per ottenere informazioni sul Covid, che in realtà rubava la password».
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I CONSIGLI

1 – Proteggere i nuovi acquisti prima della connessione

Tre azioni da non fare assolutamente per evitare i rischi cyber? Mai acquistare un dispositivo IoT e lasciare le password di default inserite dalla casa madre. Mai esporlo all’esterno, cioè alla Rete, se non è stato prima protetto. Anche se può sembrare banale, non bisogna mai dimenticare che nelle nostre case abbiamo un dispositivo sempre connesso, che dobbiamo imparare a gestire con estrema regolarità. 

2 – Limitare il raggio d'azione degli apparecchi

Come è possibile separare la rete esterna da quella domestica? Per separare le due reti, è necessario creare una rete guest e poi collegare tutti i dispositivi IoT a questa rete, invece che alla principale. Questo procedimento consente di limitare il raggio di azione degli stessi dispositivi, cioè la loro esposizione, e quindi anche di mitigare gli attacchi di eventuali attacchi malware o altre attività messe in atto dai cybercriminali.

3 – Chiave di accesso di 19 caratteri, può essere anche una frase

In che modo si possono rendere le password più sicure? Una password robusta deve avere più di 12 caratteri, ma anziché usare lettere e segni impossibili da ricordare, è preferibile scrivere almeno 19 caratteri. Un suggerimento utile è quello di mettere insieme tre parole diverse, che creano un’unica frase, molto più semplice da ricordare. Con decine di password da gestire, fondamentale il ricordo al password manager.

4 – Contro le criticità dei router cambiare spesso parola d'ordine

Quale dispositivo domestico è più rischioso? I router sono la componente critica dell’ambiente domestico, perché sono il gateway, il tramite, tra le connessioni di tutti i dispositivi e internet. Spesso svolgono funzioni centrali, quali la distribuzione delle configurazioni usate per gestire correttamente le comunicazioni. Nel caso del router è consigliabile cambiare periodicamente e con ancora maggiore attenzione la password.

5 – Mai cliccare velocemente su termini e condizioni d'uso

È importante leggere le “condizioni d’uso” di un device appena acquistato? Mai firmare o cliccare velocemente sul flag “Termini e condizioni d’uso”, perché spesso si tratta di veri e propri contratti stipulati tra l’azienda e l’utente e contengono clausole che potrebbero intaccare la nostra privacy. Inoltre prima di scaricare un software o una app, è sempre utile cercare informazioni contenute nei commenti di altri utenti.

Vincere con lo stile coding: nasce 42 Roma Luiss, la scuola per i talenti digitali

Si scrive École 42, si legge 42 Roma Luiss. In principio era Parigi. Oggi sono oltre trenta campus nel mondo, passando per Fremont, nella Silicon Valley, fino ad arrivare in Italia. Nasce nella Capitale, all’Università Luiss Guido Carli, sul modello francese, la scuola che ha l’obiettivo di formare la futura generazione di professionisti del digitale, con competenze in linea. Si chiama 42 Roma Luiss, appunto. E si parte a gennaio. In una parola coding, letteralmente programmazione informatica, ma soprattutto analisi dei problemi e risoluzione. Ma dimenticate l’immagine del nerd solitario nella stanzetta illuminata dal solo schermo del pc. Immaginatevi piuttosto i ragazzi muoversi come in un videogioco. Gli studenti sviluppano competenze attraverso i progetti che realizzano, accumulando crediti e punti esperienza. Ogni progetto completato consente di accedere al progetto successivo, in una sfida crescente. Durante i tre anni di scuola gli studenti dovranno affrontare 200 progetti divisi in 21 livelli che compongono il processo di apprendimento dalle conoscenze di base del coding fino ai diversi percorsi di specializzazione. Cybersecurity, design di videogame, sviluppo di mobile app, imprenditorialità.
 

 

IL MODELLO

Niente corsi tradizionali né classi tradizionali. E neppure professori. Non si paga retta né servono titoli di studio per accedervi. La selezione si basa solo sulle capacità dei talenti digitali. Nessun esame di profitto da sostenere: i ragazzi saranno messi alla prova con problemi da risolvere e allenandosi sin da subito a lavorare in squadra e a pensare fuori dagli schemi. La formula è quella del peer to peer, da pari a pari. Al termine di ogni step il lavoro dei ragazzi sarà “validato” dai compagni. Quartier generale l’Hub di LVenture, a Stazione Termini, dove è già presente l’acceleratore di strartup Luiss EnLabs, nato da una joint venture tra LVenture Group e l’Università Luiss. Un cuore digitale, nel cuore di Roma. La scuola apre a gennaio. «Proprio in questi giorni si è conclusa la prima piscine», racconta Massimo Angelini, direttore External affairs, Corporate communication & Partnership della Luiss. Già, perché neppure le selezioni sono tradizionali. Dopo il superamento di un primissimo test online, i ragazzi affrontano in due step la “piscina digitale”, dove si impara a nuotare scrivendo i codici del futuro e dove bisogna restare a galla con le proprie forze. «Nelle piscine non hai ancore di salvezza – sottolinea Angelini – In una full immersion, i ragazzi da subito lavorano su coding e progetti. Caratteristica fondamentale è capire quanto abbiano la capacità di lavorare insieme. Se fossero 150 giovani bravissimi ma super individualisti, il modello non funzionerebbe. Nelle quattro settimane devono imparare a lavorare insieme, si giudicano nel lavoro insieme e il team della Luiss li osserva». Parola anche di ragazzi. «Nella piscine devi davvero imparare a nuotare e i salvagente sono le persone che hai intorno – racconta Roberto in un video sulla pagina Facebook della scuola – Qui siamo studenti e professori allo stesso tempo. Mi giro a destra e chiedo una cosa, mi giro a sinistra e trovo qualcuno che chiede qualcosa a me». E Victoria, in un ping pong di domande che è già gioco di squadra: «Tanti aspetti della piscine sono studiati per metterti i bastoni tra le ruote. C’è interesse a vedere come reagisci davanti a una sfida o a un fallimento. Cosa fai nel momento in cui la vita ti colpisce in faccia? Stai tre ore a rimanerci male sprecando tempo o reagisci e vai avanti?».

L’IDEA

Oltre 4.600 candidati hanno affrontato l’iniziale test di logica e circa 870 lo hanno superato. La scuola aprirà con 150 studenti. Il sito di 42 Roma Luiss, lanciato a luglio, ha registrato 500 mila visitatori unici. E come École 42 sia diventata un’esperienza anche italiana è una storia nella storia. «École 42 nasce sull’idea di realizzare una scuola di coding per far fronte al rischio molto forte della mancanza di competenze digitali – sottolinea Massimo Angelini – Ma nasce sotto una veste estremamente innovativa e con la previsione della gratuità. Parte in Francia e si estende in una crescita progressiva: in tutto il mondo si è creato un network di 10mila ragazzi». Lo spunto italiano arriva da Riccardo Zacconi, imprenditore digitale già chairman di King.com, azienda leader nel gaming online e creatrice di successi globali come Candy Crush Saga, laureato dell’Ateneo e nel Luiss Alumni 4 Growth, club di filantropia “intelligente” che investe su start-up Luiss-related. «Tre anni fa i vertici della Luiss, con il direttore generale Giovanni Lo Storto in testa, sono andati a Parigi a vedere la scuola. E se la vedi, non puoi non innamorarti di questo modello, talmente è nuova l’idea, forte la finalità e potente l’impatto della formazione dei ragazzi – racconta Angelini – Un’occupabilità del cento per cento al termine dei tre anni. I due terzi vengono “bloccati” già durante il triennio dalle aziende in cui fanno tirocinio. Dopo il primo anno c’è anche l’opportunità di continuare la scuola all’estero. La Luiss è licenziataria per l’Italia».

LA PROSPETTIVA

Coding oggi parola chiave? «Parola chiave sicuramente – dice Angelini – ma insieme a coding si possono dire tante altre cose. La scuola punta sul coding ma ti mette nella condizione di prendere il tuo percorso, la tua specializzazione: cybersecurity, networking, system administration, programmazione avanzata, data management, sviluppo di mobile app. Dopo tre anni esce dalla scuola un professionista del digitale a tutto tondo». Nella filosofia del progetto, anche la riattivazione dell’ascensore sociale… «È nella logica della scuola – spiega Angelini – E stiamo lavorando per garantire l’alloggio almeno a una parte dei ragazzi non romani, così da metterli nelle condizioni di frequentare la scuola in grande serenità. Se ci riusciamo, avremo fatto bingo».

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Alec Ross, consulente di Obama: «Tocca a Biden sciogliere il gelo Usa-Cina sul 5G»

Quando atterri a Pechino o Shanghai, fingiamo di essere ancora in epoca pre-Covid, e accendi lo smartphone scopri che i servizi Google non funzionano, Facebook neppure e se provi a utilizzare la rete WiFi gratuita dell’aeroporto senza un profilo WeChat (il social onnipresente cinese) riesci a fare poco o nulla. Basta questo a spiegare come il ban, il divieto, che Donald Trump, ha disposto contro il colosso cinese Huawei, abbia radici lontane. «Per gli americani la risposta ai divieti tecnologici imposti dai cinesi sono ragionevoli e simmetrici» avverte Alec Ross, visiting professor alla Bologna Business School, già consulente di Barack Obama e Hillary Clinton.

RAPPORTI

Dietro alla mossa di Trump, ci sono ragioni economiche, certo, perché la crescita irresistibile di Huawei e più in generale della Cina, è un problema, ma ci sono soprattutto motivazioni geopolitiche. Huawei già ha avuto un ruolo importante, in Occidente, nella realizzazione delle reti 4G, ma prima dello stop del presidente Usa, lo stava confermando anche per quelle 5G. Per gli americani, Huawei non è una brillante compagnia privata, ma è una entità legata a doppio filo con lo Stato e con l’Esercito cinese. E se il Regno Unito ha seguito gli Usa in Italia, la situazione è maggiormente fluida. «Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha più volte espresso le sue preoccupazioni in relazione all’utilizzo di tecnologia cinese nel campo delle Tlc» ha spiegato il presidente del Copasir, Raffaele Volpi; il segretario di Stato americano, Mike Pompeo ha fatto pressioni sull’Italia perché freni l’avanzata cinese nella realizzazione di infrastrutture 5G. In sintesi: se per il comune consumatore italiano la revoca del ban di Trump riguarda soprattutto la possibilità di usare il Play Store di Google sul nuovo smartphone Huawei (che intanto ha sviluppato un servizio operativo alternativo a quello di Android), su scala mondiale, il futuro del 5G è uno degli scenari più delicati di geopolitica. E cosa succederà da gennaio quando alla Casa Bianca s’insedierà Joe Biden? Difficile pensare a una inversione a U. Cambieranno i modi, le strategie della trattativa, ma non il risultato finale.

AFFARI

Alec Ross è stato consulente dell’amministrazione Obama per le politiche tecnologiche e consulente per l’innovazione di Hillary Clinton. Spiega: «In un’amministrazione Biden, problemi come il 5G saranno visti nel contesto più ampio delle relazioni Usa-Cina. Trump ha considerato tutti i negoziati come se avessero un vincitore e un perdente. Sebbene la concorrenza tra Stati Uniti e Cina sia reale, non deve essere a somma zero. Questo non è il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Biden ha una comprensione sofisticata delle grandi relazioni di potere, il 5G sarà valutato come sussidiario di questioni più ampie di concorrenza e collaborazione tra le tecnologie. Questo, a sua volta, sarà visto come sussidiario alla relazione più ampia». Saranno riaperte le porte a Huawei? No, lo scenario non è così semplice. Ricorda il professor Ross: «Per quanto riguarda i divieti tecnologici, ciò che alcuni europei potrebbero considerare controverso, la maggior parte degli americani ha ritenuto ragionevole o simmetrico. Amazon, Facebook, Google e molte altre società americane non possono fare affari in Cina. La Cina ha bloccato il Paese da 1,4 miliardi di persone alla tecnologia americana, quindi la lotta contro le tecnologie cinesi sensibili alla sicurezza non è vista come controversa. Per ogni tecnologia cinese che l’America tenta di bloccare, la Cina blocca dieci tecnologie americane». Cosa succederà se l’Italia non interromperà i rapporto con Huawei? «Se l’Italia spingesse forte sul 5G cinese nei suoi sistemi di telecomunicazioni non otterrebbe la risposta rabbiosa che avrebbe avuto da un’amministrazione Trump. Ma Biden vorrebbe avere un confronto sulle questioni relative alla sicurezza e sul 5G cinese». Sì, il problema è un po’ più ampio del fatto che sull’ultimo sofisticatissimo smartphone Huawei non potete usare Google Maps.

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eSports, il business cresce e i fuoriclasse sono contesi da procuratori sportivi e sponsor

Wallace, quel genio totale mai del tutto compreso di David Foster Wallace, nella sua produzione alluvionale, un giorno, in una paginetta apparentemente innocua, a proposito di un personaggio, decise di schiantarci in via definitiva con frasi di questo genere. «Allergico a qualsiasi distanza fra se stesso e quello che voleva…». Undici paroline, non di più: un’umanità disegnata e racchiusa se non per intero, almeno per i tre quarti dei miliardi e miliardi di persone con cui condividiamo il pianeta. Esempio e paradigma perfetto oltre ogni fantasia di individuo allergico a qualsiasi distanza fra se stesso e quello che voleva è, con approssimazione rasente lo zero, il giocatore di eSports o eSport (senza la s finale) o e-Sport (con il trattino) o anche, se preferite, sport elettronici in italiano. Insomma. I fanatici dei videogiochi. Sognate di essere artisti del pallone come Leo Messi ma la tecnica, ecco, non è esattamente definibile con aggettivi tipo eccezionale, fenomenale o solo straordinario? Ma nessun problema: ci pensa Fifa a elevarvi agli altari della gloria eterna. Vi svegliate di notte in preda all’irrefrenabile desiderio di centrare la pole position a Monza abbattendo il muro dell’1’19”? Hamilton ci è già riuscito nella realtà, d’accordo, ma il gioco Formula 1 2020 (o anche 2019) è stato inventato apposta per voi. Pilotare aerei a 19 anni da compiere? Facilissimo: ecco servito Flight Simulator (grafica mostruosamente fedele, tra l’altro). La notizia è semplice e va data subito subito: i matti per i videogame sono sempre di più, si moltiplicano a ritmi criminali attingendo generosamente dal bacino dei giovanissimi (ma gli insospettabili adulti sono ovunque), arrivano a guadagnare cifre tali da indurre larghe fasce dalla popolazione a pensare di aver sbagliato tutto nella vita, e adesso, non fosse già abbastanza, sono pronti per atterrare nel magico mondo delle Olimpiadi. Quelle vere, sì, le Olimpiadi in cui, in un tempo che ora ci pare lontano tipo il Paleozoico, vincevano miti e leggende come Bolt e Federica Pellegrini.

 

I MIGLIORI

Così, sotto l’impulso di un’insopprimibile voglia di comprimere il delta tra sogno e tangibilità, il mondo del terzo millennio ha inventato la realtà simulata. Per intanto i campionissimi del ramo sono dei ragazzi per lo più nordeuropei e asiatici, anche se ovviamente non possono farci preoccupare per la loro assenza gli immancabili americani. Un esempio aiuterà i curiosi: il 27enne Johan Sundstein, metà danese e metà faroese, meglio noto come N0tail (è uno zero quel carattere tra la n e la t), ha riempito nella sua carriera un autocarro furgonato di soldi raggiungendo la stratosferica cifra di 6,9 milioni di dollari. Non è uno scherzo (più di qualcuno vorrebbe lo fosse): è la fotografia della realtà o, meglio, del virtuale che si svela e si riflette nella realtà. Johan, ci narrano le sue numerose e informatissime biografie, ha cominciato a giocare ai videogiochi a two years old. A due anni, avete capito bene. Possibile? Smarrimento generale. Mozart a tre anni batteva i tasti del clavicembalo, ci rassicura Wikipedia. Comunque. Johan detto N0tail è un fenomeno nel gioco Dota 2. Dota 2? Ancora Wikipedia corre in nostro aiuto: «In Dota 2 l’obiettivo è distruggere la fortezza avversaria». Il che permette di tracciare un perimetro intorno al grande luna park dei videogame. A differenza di quanto si possa frettolosamente intuire, non si tratta solo di calcio, moto, macchine, basket e sport in senso stretto. No. Alla lista bisogna aggiungere, a ben vedere, altre interessanti categorie: ad esempio picchiaduro, strategici, sparatutto e multiplayer battle arena. Chissà perché, ma affiora un leggerissimo sentore di violenza: però dev’essere solo un’impressione. Senz’altro.

TUTTI A PARIGI

Per cui i maghi degli eSports si ritrovano in consessi molto ambiti ed esibiscono le loro doti davanti a platee adoranti. Si riuniscono anche in squadre, o scuderie, sponsorizzate da marchi di alto prestigio. E i tornei sono un’infinità. Per dirne giusto alcuni, la Lega Serie A organizza il torneo Ea Sports Fifa 20, ed esistono pure la ePremier League inglese o la e-Ligue1 francese. E i plenipotenziari della F1 allestiscono direttamente il mondiale gemello di Formula 1: tanto che l’ultimo a essersi laureato campione è stato proprio il nostro David Tonizza, classe 2002, viterbese, che ha conquistato niente meno che con la Ferrari il titolo piloti della Formula1 Esports Series. Tonizza – Tonzilla, per tifosi e amici – è peraltro entrato nella Ferrari driver academy esports team, un progetto che condurrà a un campionato Esports Ferrari. Oltre tutto, durante il lockdown della primavera, i veri piloti di F1 – Leclerc su tutti – si sono sfidati sui vari circuiti virtuali direttamente da casa propria. E non basta, figurarsi. Perché la Wsa, un’agenzia di procura sportiva, ha inaugurato una divisione dedicata al mondo degli eSports insieme a Mkers, una delle maggiori aziende del ramo. Il movimento è chiaro: i procuratori sportivi abbracciano ora i giocatori non soltanto veri, ma pure i virtuali. E, chiaramente, gli sponsor si tuffano a bomba nel paese delle meraviglie, seminando tonnellate di denaro in attesa poi di passare a raccogliere. Alle Olimpiadi di Tokyo (estate 21, a quanto pare), gli eSports ricopriranno il simpatico ruolo di mascotte e regaleranno esibizioni prive di cittadinanza olimpica nel medagliere. Sarà però un aperitivo: perché ai Giochi del 2024 dovrebbero diventare una disciplina olimpica. A Parigi. Proprio a casa di Pierre de Frédy, barone di Coubertin. Ma, in fondo, come ci ha insegnato lui, l’importante è sempre partecipare.

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