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Sorpresa: è elettrico il van più venduto al mondo

Sorpresa: è elettrico il van più venduto al mondo
Sorpresa: è elettrico il van più venduto al mondo

Un posto migliore nel quale vivere». È il contributo che Jim Farley, numero uno di Ford, sogna di dare al mondo con l’elettrificazione del veicolo commerciale di maggior successo dell’Ovale Blu. Nel solo 2019 avrebbe significato una riduzione delle emissioni di CO2 di 30 milioni di tonnellate. L’E-Transit, per il quale è stata scelta la soluzione a trazione posteriore, asse sul quale sono state montate anche sospensioni indipendenti, arriverà nel Vecchio Continente nella primavera del 2022 con un’autonomia massima stimata di 350 chilometri nel ciclo Wltp. La logistica dell’ultimo miglio sta orientando la domanda: per entrare nelle città sono ormai indispensabili veicoli a emissioni zero che devono però continuare ad essere redditizi. Ford ha assicurato che la capacità di carico dell’E-Transit è analoga a quella del gemello a gasolio a due ruote motrici, ossia fino a oltre 15 metri cubi. La declinazione van ha una portata utile netta fino a quasi 1.620 chilogrammi, mentre quella cabinata sfiora i 1.970. Personalizzazioni degli allestitori escluse, l’E-Ttransit sarà disponibile in 25 configurazioni con una portata fino a 4,25 tonnellate.

MOTORE DALL’AMERICA

Il motore elettrico dell’E-Transit arriva dal Nord America ed ha una potenza massima di 269 cavalli con 430 Nm di coppia. Le celle della batteria da 67 kWh sistemata sotto il pianale di carico arrivano dalla Polonia: sia l’accumulatore sia il veicolo commerciale elettrico vengono poi assemblati in Turchia. Per semplificare la vita ai professionisti, l’E-Transit dispone di un doppio sistema di ricarica: alternata (AC) o continua (DC). Il dispositivo da 11,3 kW assicura un rifornimento completo in 8,2 ore a corrente alternata. Un pieno tra il 15 e l’80% viene invece garantito da Ford in 34 minuti da una stazione a corrente continua con 115 kW di potenza. Per la prima volta nel segmento europeo dei veicoli professionali, un modello potrà fungere anche da alimentatore per attrezzature esterne: si tratta di un’opzione a richiesta compresa del sistema Pro Power Onboard dell’E-Transit. La potenza massima è di 2,3 kW. Il furgone monta il sistema di infotainment Sync 4 con schermo tattile da 12” a riconoscimento vocale. Altamente connesso e con una serie di dispositivi di assistenza alla guida, il veicolo è accreditato di una potenziale riduzione dei costi di gestione di circa il 40% rispetto ai modelli con motori convenzionali. Il conducente può contribuire ad una ulteriore razionalizzazione dei consumi (8-10%) anche impostando la modalità di guida Eco (una delle tre tra cui scegliere). Componenti elettriche e batteria sono coperte da una garanzia di 8 anni o 160.000 km.

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5G, a scuola con Leonardo. In Cina gli studenti trasportati nel momento storico oggetto di studio

5G, a scuola con Leonardo. In Cina gli studenti trasportati nel momento storico oggetto di studio
5G, a scuola con Leonardo. In Cina gli studenti trasportati nel momento storico oggetto di studio

Da qualche anno ormai con l’innovazione di massa funziona così: quando anche Apple introduce l’elemento in questione sui suoi smartphone, l’ascesa è ufficialmente inarrestabile. Un assioma che anche il 5G, appena reso disponibile sui nuovi iPhone 12 presentati il mese scorso da Cupertino, finirà con il confermare nei prossimi mesi. Al netto delle rimostranze di Donald Trump contro Huawei, dei complottisti per le “pericolose” antenne e dei dubbi sulla sicurezza informatica della rete, la connettività di quinta generazione è davvero sul punto di arrivare a “invadere” la nostra quotidianità fatta di abbonamenti mensili agli operatori telefonici e di futuristiche applicazioni di cui non siamo pienamente consapevoli. La sola differenza, dopo un 2020 così travagliato, è che forse non lo farà più con tecnologia proveniente dalla Cina e che servirà un’accelerazione mai vista per scontare il ritardo accumulato. Ma ormai è solo questione di tempo. Tant’è che mentre l’infrastruttura sta gradualmente prendendo piede all’interno della Penisola continuano a moltiplicarsi le possibilità a disposizione degli utenti (e con esse la quantità di dati sviluppata e la “banda” necessaria per sostenerli, ma questa è un’altra storia). Anche perché, come ha dimostrato un recente report di Analysys Mason sul tema commissionato da Ericsson, la connettività di quinta generazione rappresenta una svolta da 210 miliardi di euro per l’Europa. Per l’Italia saranno più di 14. Ma allora da quale porta entrerà il 5G nelle nostre vite? Un po’ da tutte, perché se è vero che manca ad oggi una killer application, vale a dire un’applicazione pratica che fa sobbalzare dalla sedia e urlare da sola alla rivoluzione, è proprio la versatilità ad aprire nuovi scenari. Cosa sarebbe successo ad esempio se la nuova infrastruttura di rete fosse stata disponibile su larga scala già durante la pandemia? Si può immaginare che sarebbero venuti meno tutti i tristi disagi causati dalla didattica da remoto a chi non ha a disposizione una linea fissa.

LO SCENARIO

Non è un caso se uno dei settori su cui si fa più ricerca con la banda ultra larga mobile è quello dell’istruzione (e della formazione in genere). Il colosso cinese Zte ad esempio ha sviluppato, sfruttando le potenzialità dei visori di realtà aumentata, dei dispositivi capaci di trasportare gli studenti nel momento storico oppure nel luogo che stanno studiando. Si può pensare ad una lezione sul Rinascimento e il 1500, con un giovane che si trova catapultato accanto a Leonardo Da Vinci. Una situazione un po’ più efficace rispetto ad una video lezione semplice. Allo stesso modo la possibilità di inserire sensori connessi e stabili – la latenza è la vera peculiarità del 5G, cioè l’aver ridotto al minimo il ritardo tra domanda e risposta – in qualsiasi dispositivo che ci circonda, avrebbe permesso di gestire da remoto con più serenità diverse situazioni. A partire dall’assistenza medica in casa (con il monitoraggio costante dei parametri) fino alla gestione di lavori pericolosi. In Cina ad esempio, dove la nuova connettività è uno standard già diffuso, la compagnia mineraria China Molybdenum ha modificato alcuni macchinari destinati al trasporto dei materiali nei suoi siti di estrazione permettendo agli operai di guidarli da remoto. Ha in pratica messo in smartworking i minatori. E un paradigma del genere sarebbe esportabile per decine di altre attività produttive: dalla fabbriche manifatturiere alle situazioni di pericolo come la bonifica di un’area inaccessibile.

LA CASA

Dimostrazioni pratiche del fatto che se è vero che parlando di connessioni ultra rapide spesso si finisce con il pensare alla possibilità di scaricare un film da internet in meno di un secondo oppure a quella di video-giocare in rete senza il minimo ritardo anche spostandosi, in realtà c’è molto di più, pure dentro casa. Nelle abitazioni, a farla da padrone con il 5G sarà l’Internet of Things (IoT). Elettrodomestici come frigoriferi, forni, macchine del caffè, tv, lavatrici e robot aspirapolvere possono non solo essere controllati mentre si è fuori casa, ma possono interfacciarsi tra loro e con le decine di sensori a disposizione, rendendo non solo più semplice la gestione della vita domestica ma anche più efficiente. Sia in termini energetici (gli impianti di riscaldamento ad esempio possono regolarsi da soli per evitare sprechi) che di sicurezza dato che gli standard di cyber security del 5G sono decisamente meno violabili delle tecnologie precedenti.

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eSports, il business cresce e i fuoriclasse sono contesi da procuratori sportivi e sponsor

eSports, il business cresce e i fuoriclasse sono contesi da procuratori sportivi e sponsor
eSports, il business cresce e i fuoriclasse sono contesi da procuratori sportivi e sponsor

Wallace, quel genio totale mai del tutto compreso di David Foster Wallace, nella sua produzione alluvionale, un giorno, in una paginetta apparentemente innocua, a proposito di un personaggio, decise di schiantarci in via definitiva con frasi di questo genere. «Allergico a qualsiasi distanza fra se stesso e quello che voleva…». Undici paroline, non di più: un’umanità disegnata e racchiusa se non per intero, almeno per i tre quarti dei miliardi e miliardi di persone con cui condividiamo il pianeta. Esempio e paradigma perfetto oltre ogni fantasia di individuo allergico a qualsiasi distanza fra se stesso e quello che voleva è, con approssimazione rasente lo zero, il giocatore di eSports o eSport (senza la s finale) o e-Sport (con il trattino) o anche, se preferite, sport elettronici in italiano. Insomma. I fanatici dei videogiochi. Sognate di essere artisti del pallone come Leo Messi ma la tecnica, ecco, non è esattamente definibile con aggettivi tipo eccezionale, fenomenale o solo straordinario? Ma nessun problema: ci pensa Fifa a elevarvi agli altari della gloria eterna. Vi svegliate di notte in preda all’irrefrenabile desiderio di centrare la pole position a Monza abbattendo il muro dell’1’19”? Hamilton ci è già riuscito nella realtà, d’accordo, ma il gioco Formula 1 2020 (o anche 2019) è stato inventato apposta per voi. Pilotare aerei a 19 anni da compiere? Facilissimo: ecco servito Flight Simulator (grafica mostruosamente fedele, tra l’altro). La notizia è semplice e va data subito subito: i matti per i videogame sono sempre di più, si moltiplicano a ritmi criminali attingendo generosamente dal bacino dei giovanissimi (ma gli insospettabili adulti sono ovunque), arrivano a guadagnare cifre tali da indurre larghe fasce dalla popolazione a pensare di aver sbagliato tutto nella vita, e adesso, non fosse già abbastanza, sono pronti per atterrare nel magico mondo delle Olimpiadi. Quelle vere, sì, le Olimpiadi in cui, in un tempo che ora ci pare lontano tipo il Paleozoico, vincevano miti e leggende come Bolt e Federica Pellegrini.

I MIGLIORI

Così, sotto l’impulso di un’insopprimibile voglia di comprimere il delta tra sogno e tangibilità, il mondo del terzo millennio ha inventato la realtà simulata. Per intanto i campionissimi del ramo sono dei ragazzi per lo più nordeuropei e asiatici, anche se ovviamente non possono farci preoccupare per la loro assenza gli immancabili americani. Un esempio aiuterà i curiosi: il 27enne Johan Sundstein, metà danese e metà faroese, meglio noto come N0tail (è uno zero quel carattere tra la n e la t), ha riempito nella sua carriera un autocarro furgonato di soldi raggiungendo la stratosferica cifra di 6,9 milioni di dollari. Non è uno scherzo (più di qualcuno vorrebbe lo fosse): è la fotografia della realtà o, meglio, del virtuale che si svela e si riflette nella realtà. Johan, ci narrano le sue numerose e informatissime biografie, ha cominciato a giocare ai videogiochi a two years old. A due anni, avete capito bene. Possibile? Smarrimento generale. Mozart a tre anni batteva i tasti del clavicembalo, ci rassicura Wikipedia. Comunque. Johan detto N0tail è un fenomeno nel gioco Dota 2. Dota 2? Ancora Wikipedia corre in nostro aiuto: «In Dota 2 l’obiettivo è distruggere la fortezza avversaria». Il che permette di tracciare un perimetro intorno al grande luna park dei videogame. A differenza di quanto si possa frettolosamente intuire, non si tratta solo di calcio, moto, macchine, basket e sport in senso stretto. No. Alla lista bisogna aggiungere, a ben vedere, altre interessanti categorie: ad esempio picchiaduro, strategici, sparatutto e multiplayer battle arena. Chissà perché, ma affiora un leggerissimo sentore di violenza: però dev’essere solo un’impressione. Senz’altro.

TUTTI A PARIGI

Per cui i maghi degli eSports si ritrovano in consessi molto ambiti ed esibiscono le loro doti davanti a platee adoranti. Si riuniscono anche in squadre, o scuderie, sponsorizzate da marchi di alto prestigio. E i tornei sono un’infinità. Per dirne giusto alcuni, la Lega Serie A organizza il torneo Ea Sports Fifa 20, ed esistono pure la ePremier League inglese o la e-Ligue1 francese. E i plenipotenziari della F1 allestiscono direttamente il mondiale gemello di Formula 1: tanto che l’ultimo a essersi laureato campione è stato proprio il nostro David Tonizza, classe 2002, viterbese, che ha conquistato niente meno che con la Ferrari il titolo piloti della Formula1 Esports Series. Tonizza – Tonzilla, per tifosi e amici – è peraltro entrato nella Ferrari driver academy esports team, un progetto che condurrà a un campionato Esports Ferrari. Oltre tutto, durante il lockdown della primavera, i veri piloti di F1 – Leclerc su tutti – si sono sfidati sui vari circuiti virtuali direttamente da casa propria. E non basta, figurarsi. Perché la Wsa, un’agenzia di procura sportiva, ha inaugurato una divisione dedicata al mondo degli eSports insieme a Mkers, una delle maggiori aziende del ramo. Il movimento è chiaro: i procuratori sportivi abbracciano ora i giocatori non soltanto veri, ma pure i virtuali. E, chiaramente, gli sponsor si tuffano a bomba nel paese delle meraviglie, seminando tonnellate di denaro in attesa poi di passare a raccogliere. Alle Olimpiadi di Tokyo (estate 21, a quanto pare), gli eSports ricopriranno il simpatico ruolo di mascotte e regaleranno esibizioni prive di cittadinanza olimpica nel medagliere. Sarà però un aperitivo: perché ai Giochi del 2024 dovrebbero diventare una disciplina olimpica. A Parigi. Proprio a casa di Pierre de Frédy, barone di Coubertin. Ma, in fondo, come ci ha insegnato lui, l’importante è sempre partecipare.

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Vincere con lo stile coding: nasce 42 Roma Luiss, la scuola per i talenti digitali

Vincere con lo stile coding: nasce 42 Roma Luiss, la scuola per i talenti digitali
Vincere con lo stile coding: nasce 42 Roma Luiss, la scuola per i talenti digitali

Si scrive École 42, si legge 42 Roma Luiss. In principio era Parigi. Oggi sono oltre quaranta campus nel mondo, passando per Fremont, nella Silicon Valley, fino ad arrivare in Italia. Nasce nella Capitale, all’Università Luiss Guido Carli, sul modello francese, la scuola che ha l’obiettivo di formare la futura generazione di professionisti del digitale, con competenze in linea. Si chiama 42 Roma Luiss, appunto. E si parte a gennaio. In una parola coding, letteralmente programmazione informatica, ma soprattutto analisi dei problemi e risoluzione. Ma dimenticate l’immagine del nerd solitario nella stanzetta illuminata dal solo schermo del pc. Immaginatevi piuttosto i ragazzi muoversi come in un videogioco. Gli studenti sviluppano competenze attraverso i progetti che realizzano, accumulando crediti e punti esperienza. Ogni progetto completato consente di accedere al progetto successivo, in una sfida crescente. Durante i tre anni di scuola gli studenti dovranno affrontare 200 progetti divisi in 21 livelli che compongono il processo di apprendimento dalle conoscenze di base del coding fino ai diversi percorsi di specializzazione. Cybersecurity, design di videogame, sviluppo di mobile app, imprenditorialità.

IL MODELLO

Niente corsi tradizionali né classi tradizionali. E neppure professori. Non si paga retta né servono titoli di studio per accedervi. La selezione si basa solo sulle capacità dei talenti digitali. Nessun esame di profitto da sostenere: i ragazzi saranno messi alla prova con problemi da risolvere e allenandosi sin da subito a lavorare in squadra e a pensare fuori dagli schemi. La formula è quella del peer to peer, da pari a pari. Al termine di ogni step il lavoro dei ragazzi sarà “validato” dai compagni. Quartier generale l’Hub di LVenture, a Stazione Termini, dove è già presente l’acceleratore di strartup Luiss EnLabs, nato da una joint venture tra LVenture Group e l’Università Luiss. Un cuore digitale, nel cuore di Roma, di oltre mille metri quadrati. La scuola apre a gennaio. «Proprio in questi giorni si è conclusa la prima piscine», racconta Massimo Angelini, direttore External affairs, Corporate communication & Partnership della Luiss. Già, perché neppure le selezioni sono tradizionali. Dopo il superamento di un primissimo test online, i ragazzi affrontano in due step la “piscina digitale”, dove si impara a nuotare scrivendo i codici del futuro e dove bisogna restare a galla con le proprie forze. «Nelle piscine non hai ancore di salvezza – sottolinea Angelini – In una full immersion, i ragazzi da subito lavorano su coding e progetti. Caratteristica fondamentale è capire quanto abbiano la capacità di lavorare insieme. Se fossero 150 giovani bravissimi ma super individualisti, il modello non funzionerebbe. Nelle quattro settimane devono imparare a lavorare insieme, si giudicano nel lavoro insieme e il team della Luiss li osserva». Parola anche di ragazzi. «Nella piscine devi davvero imparare a nuotare e i salvagente sono le persone che hai intorno – racconta Roberto in un video sulla pagina Facebook della scuola – Qui siamo studenti e professori allo stesso tempo. Mi giro a destra e chiedo una cosa, mi giro a sinistra e trovo qualcuno che chiede qualcosa a me». E Victoria, in un ping pong di domande che è già gioco di squadra: «Tanti aspetti della piscine sono studiati per metterti i bastoni tra le ruote. C’è interesse a vedere come reagisci davanti a una sfida o a un fallimento. Cosa fai nel momento in cui la vita ti colpisce in faccia? Stai tre ore a rimanerci male sprecando tempo o reagisci e vai avanti?».

L’IDEA

Oltre 4.600 candidati hanno affrontato l’iniziale test di logica e circa 870 lo hanno superato. La scuola aprirà con 150 studenti. Il sito di 42 Roma Luiss, lanciato a luglio, ha registrato 500 mila visitatori unici. E come École 42 sia diventata un’esperienza anche italiana è una storia nella storia. «École 42 nasce sull’idea di realizzare una scuola di coding per far fronte al rischio molto forte della mancanza di competenze digitali – sottolinea Massimo Angelini – Ma nasce sotto una veste estremamente innovativa e con la previsione della gratuità. Parte in Francia e si estende in una crescita progressiva: in tutto il mondo si è creato un network di 10mila ragazzi». Lo spunto italiano arriva da Riccardo Zacconi, chairman di King, azienda leader nel gaming online e creatrice di successi globali come Candy Crush Saga, laureato dell’Ateneo e nel Luiss Alumni 4 Growth, club di filantropia “intelligente” che investe su start-up Luiss-related. «Tre anni fa i vertici della Luiss, con il direttore generale Giovanni Lo Storto in testa, sono andati a Parigi a vedere la scuola. E se la vedi, non puoi non innamorarti di questo modello, talmente è nuova l’idea, forte la finalità e potente l’impatto della formazione dei ragazzi – racconta Angelini – Un’occupabilità del cento per cento al termine dei tre anni. I due terzi vengono “bloccati” già durante il triennio dalle aziende in cui fanno tirocinio. Dopo il primo anno c’è anche l’opportunità di continuare la scuola all’estero. La Luiss è licenziataria per l’Italia».

LA PROSPETTIVA

Coding oggi parola chiave? «Parola chiave sicuramente – dice Angelini – ma insieme a coding si possono dire tante altre cose. La scuola punta sul coding ma ti mette nella condizione di prendere il tuo percorso, la tua specializzazione: cybersecurity, networking, system administration, programmazione avanzata, data management, sviluppo di mobile app. Dopo tre anni esce dalla scuola un professionista del digitale a tutto tondo». Nella filosofia del progetto, anche la riattivazione dell’ascensore sociale… «È nella logica della scuola – spiega Angelini – E stiamo lavorando per garantire l’alloggio almeno a una parte dei ragazzi non romani, così da metterli nelle condizioni di frequentare la scuola in grande serenità. Se ci riusciamo, avremo fatto bingo».

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Alexa e Siri, in camice a vigilare sulla salute

Alexa e Siri, in camice a vigilare sulla salute
Alexa e Siri, in camice a vigilare sulla salute

Fino a pochi mesi fa consideravamo gli assistenti vocali e in generale le piattaforme di intelligenza artificiale applicate alla voce come strumenti pratici, ma fondamentalmente ludici: l’idea di chiedere informazioni, formulare domande o impartire ordini a un barattolo cilindrico o a una sfera e alla suadente voce femminile che ci rispondeva in fondo ci divertiva, e sollevava la nostra pigrizia atavica dall’incombenza di accendere le luci, cambiare canali del televisore o regolare il termostato di casa.

EFFETTO LOCKDOWN

Forse però con il lockdown abbiamo avuto anche maggior tempo e modo per riflettere sul fatto che i vari Alexa, Siri, Assistant e Cortana (i sistemi vocali implementati rispettivamente da Amazon, Apple, Google e Microsoft) potessero avere anche altri utilizzi decisamente più utili per la società. Amazon Alexa ha lanciato una funzione gratuita all’interno del proprio assistente virtuale che permette di connettersi con un dispositivo Echo a casa di genitori o parenti non più giovani che necessitano di attenzioni, effettuando un check-in da remoto. Il progetto parte dagli Stati Uniti e si chiama Care Hub. Basta avere l’applicazione Alexa installata sul proprio smartphone per capire se l’anziano sta bene. Si può vedere quando ha interagito con Alexa o se invece non c’è interazione. Genererà un circolo virtuoso con i competitors che lanceranno servizi sempre più sofisticati e utili. James Barrat, documentarista e saggista, nel suo best seller globale “La nostra invenzione finale” (edito anche in Italia da Nutrimenti) ci aveva avvertito delle opportunità – ma anche dei rischi – dell’intelligenza artificiale e del machine learning legati agli assistenti vocali. «Nel giro di cinque anni gli assistenti avranno fatto tanti di quei passi avanti da essere irriconoscibili. Pensate solo alle possibilità come principale interfaccia per una popolazione sempre più anziana e che fa fatica a leggere. L’Alexa e il Google Assistant di domani avranno anche una memoria, a differenza di quella di oggi, e ricorderà molto di quel che facciamo. Il potenziale insomma è enorme, così come i rischi di concentrazione», scriveva solo due anni fa Barrat.

LE PROSPETTIVE

Le vendite degli smart speaker – ovvero quei dispositivi che stanno al centro di questa rivoluzione – stanno crescendo: alla fine del 2020 nel mondo si conteranno 320 milioni di smart speaker in funzione, e gli analisti di Canalys prevedono che la cifra sia destinata a raddoppiare entro il 2024, quando gli altoparlanti con assistente vocale saranno 640 milioni. La crescita maggiore si è avuta in Cina (+16%), nel resto del mondo l’incremento nel 2020 è stato del 3%. Ancora Barrat: «Nei prossimi anni gli assistenti vocali saranno in grado di riconoscere tono e inflessione delle richieste da parte dell’uomo, in modo tale da fornire risposte e consigli sempre più puntuali e personalizzati». Il futuro degli assistenti vocali si preannuncia pieno di novità.

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ORIZZONTE 2021

I colossi si alleano per un unico sistema

L’ultima notizia arriva da Zigbee Alliance, un’associazione che riunisce 145 tra produttori e sviluppatori con l’obiettivo di realizzare l’Internet of Things. Un gruppo di aziende, tra cui Apple, Google e Amazon, ha affermato di essere pronto per il lancio nel 2021 di un unico standard nel campo dei dispositivi intelligenti. Il progetto, chiamato “Project Connected Home over IP” ha l’obiettivo di creare uno standard di connettività affidabile e unico per i dispositivi smart home: questo significherebbe in pratica che non ci saranno più restrizioni e non dovremo scegliere dispositivi di IoT appartenenti allo stesso sistema.

Matteo Grandi: il dilemma dei social, paradosso di Ovidio

Molto Futuro: Il dilemma dei social, paradosso di Ovidio
Molto Futuro: Il dilemma dei social, paradosso di Ovidio

Farne a meno è impossibile. Fino a un po’ di tempo fa poteva ancora capitare d’imbattersi in qualche anticonformista fiero di rivendicare la propria avversione ai social: l’assenza di un profilo Facebook o Instagram come cifra identitaria. Tempi andati. Oggi le statistiche ci raccontano un’altra realtà: gli italiani che non usano uno smartphone per andare su internet sono appena l’8%, in compenso controlliamo il nostro cellulare in media 221 volte al giorno; più della metà (55%) dei giovani di età compresa tra 16 e 24 anni ammette di controllare il proprio smartphone nel cuore della notte; il 79% dei possessori di un telefonino controlla il proprio apparecchio non più tardi di un quarto d’ora dopo essersi svegliato, ogni mattina.

QUOTIDIANITÀ

Se non è dipendenza, poco ci manca. E nel mentre i social sono diventati nuovi media a tutti gli effetti. Hanno scandito l’ultima campagna elettorale Usa, hanno veicolato il messaggio del movimenti #BlackLivesMatters, hanno orientato opinioni, sono stati centrali nella vicenda Covid, e – secondo alcuni analisti politici – in Italia sono diventati addirittura strumento di test utilizzato dal Presidente del Consiglio prima di emanare i famigerati Dpcm (da cui la ormai celebre, quanto discutibile, tecnica della fuga delle bozze per testare la reazione social e aggiustare il tiro di conseguenza). I social sono parte integrante della quotidianità ed è semplicemente impossibile farne a meno. Da qua transitano le notizie, le comunicazioni istituzionali dei politici, le foto delle persone a noi care, i momenti di incontro e di condivisione con amici e conoscenti (a maggior ragione ora che la nostra socialità tradizionale è sospesa e ridimensionata). Certo, da qua passa anche una quantità incredibile di fake news; e il livello di saturazione rispetto alle bufale è tale che stiamo assistendo all’apertura di un nuovo capitolo nella storia della comunicazione mainstream: la censura dei politici da parte delle piattaforme in caso di post non veritieri. Giusto? Sbagliato? Di sicuro molto pericoloso. Perché quando qualcuno con un potere forte come quello dei colossi del web si innalza a censore i rischi per la democrazia iniziano a essere elevati. Anche se chi censura è animato dalle migliori intenzioni, anche se le fake news sono un veleno che inquina il dibattito, la risposta alla disinformazione non può essere un “tribunale della verità” incarnato da un soggetto privato: così non si migliora il dibattito ma si creano i presupposti per una realtà dai risvolti inquietanti.

Del resto le fake news politiche si potrebbero contrastare senza censura ma ricorrendo a una contro-narrazione credibile, al fact-checking, alla denuncia. Ben sapendo che rischiano di essere tutte armi spuntate in un mare di disinformazione cavalcata con cinismo da tantissimi politici. Certo, la rete è ancora oggi lo strumento migliore per fare le pulci al potere, per dare voce ai più deboli, per raccontare verità scomode, ma in troppi, soprattutto ad alti livelli, ne fanno un uso scorretto. Un grande caos nel quale gli utenti fanno fatica a orientarsi, pur avendo la rassegnata consapevolezza che, nonostante le infinite derive, staccarsi dai social sta diventando impossibile. “Nec sine te nec tecum vivere possum”, per dirla con Ovidio. Il tutto senza dimenticare che oltre alla dipendenza da social e alla infodemia che pervade le piattaforme, c’è un altro aspetto scivoloso nel nostro rapporto con Facebook & co. Aspetto raccontato abbastanza lucidamente dal documentario di Netflix “The Social Dilemma”: ovvero le delicatissime implicazioni etico-sociali della tecnologia e che anche grazie alla sovrapproduzione di disinformazione manipola gli utenti con lo scopo di generare profitti. Senza contare che nel nostro rapporto con i social entrano in gioco due temi enormi come profilazione e big-data. Di fronte ai quali oggi gli utenti sembrano totalmente inermi. E forse il vero dilemma è proprio questo: come razionalizzare l’uso di uno strumento che rappresenta a un tempo il più grande potenziale per la vita delle persone (in termini di connessione, interazione, informazione, new business) e al tempo stesso il pericolo più insidioso.

*scrittore e autore tv

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LE BUONE REGOLE

1 – La ricetta per una digital detox

Letteralmente si dice “disintossicazione digitale”. Un’operazione che si pratica astenendosi dall’utilizzare smartphone, computer e connessione. Ovviamente eliminare il digitale dalle nostre vite oggi è impensabile oltre che impossibile, ma possiamo ritrovare un equilibrio – e insieme a questo attenzione e concentrazione – concedendoci dei periodi di pausa mirati e forzati in cui staccarci da qualsiasi forma di connessione.

2 – Non condividere se non si è sicuri della veridicità del post

Riconoscere le fake news non è mai semplice. Nel flusso di informazioni dalle quali siamo bombardati è difficile riconoscere il vero dal falso, vuoi perché spesso la fruizione è veloce e superficiale, vuoi perché le reazioni a certe notizie sono emotive prima ancora che razionali. Ma se riconoscere le bufale non è sempre così facile, è facilissimo non rendersi complici della loro diffusione: basta non condividere mai notizie se non si è avuto modo di verificarne la veridicità.

3 – Attenzione agli scivoloni: mantenere la reputazione digitale

È vero: in rete tutto è amplificato e tutto passa alla velocità della luce. Ma il nostro valore online è determinato esclusivamente della nostra reputazione. Avere un profilo credibile, non lasciarsi andare a scivoloni né a uscite infelici che ledano la nostra immagine è importantissimo. Perché gli errori in rete si dimenticano ma non si cancellano mai e potrebbero essere riesumati e utilizzati contro di noi in qualsiasi momento.

4 – Navigazione in incognito per evitare il “tracking”

Quando visitate un sito internet, il browser mostra una serie di informazioni su di voi e sulla vostra cronologia di navigazione in rete. Le aziende che si occupano di marketing usano queste informazioni per farvi arrivare annunci pubblicitari mirati: è la cosiddetta “profilazione”. Per evitare questa forma di violazione della privacy potete ricorrere a una modalità di navigazione in incognito, naturalmente dotandovi di tool specifici.

5 – Occhio alle App: il consenso solo per i dati indispensabili

Quando installate nuove applicazioni sul vostro smartphone, cercate sempre di fare attenzione alle funzioni che scegliete di attivare oppure che sono attivate di default. Molto importante è non dare il consenso all’accesso a dati o strumenti non strettamente indispensabili a garantire la funzionalità delle relative applicazioni, come ad esempio l’accesso al microfono, alla fotocamera e soprattutto alla geolocalizzazione.

Alimentazione naturale: ogni isolato dovrà diventare una piccola centrale a energia solare o eolica

Alimentazione naturale: ogni isolato dovrà diventare una piccola centrale a energia solare o eolica
Alimentazione naturale: ogni isolato dovrà diventare una piccola centrale a energia solare o eolica

Solare ed eolico. Saranno queste le parole chiave della nuova filosofia dell’abitare, a livello energetico, tra casa e città. L’idea è fare in modo che abitazioni e quartieri si “alimentino” naturalmente. Non mera teoria, ma una prospettiva concreta. E una vera urgenza. «Serve uno sguardo risolutivo ormai, non più compensativo, sulle energie che derivano da carburanti fossili – dice l’architetto Stefano Boeri – L’obiettivo per le città penso sia eliminare il riscaldamento a gasolio, gran parte delle polveri sottili a Milano viene dal riscaldamento». I mezzi per farlo non mancano. Sono molte le soluzioni alternative per la casa. «Ormai dal punto di vista energetico si può far sì che, non dico ogni stabile, ma ogni isolato diventi una piccola centrale di energia rinnovabile, grazie al solare, e, in alcune parti del Paese, grazie al sistema eolico. Ciò può generare autosufficienza energetica e in alcuni casi perfino più energia di quanta ne serva. Spero che in futuro, questa energia possa essere facilmente stoccata, anche nei mesi invernali, con il sole basso, senza scambi con la rete nazionale. La domotica potrebbe aiutare a capire quanta energia stiamo consumando e quanta ne stiamo producendo».

RILETTURA

Case e quartieri diventano, dunque, strumenti chiave per la rilettura del tema energetico. Il modello era stato sollecitato, anni fa, da Jeremy Rifkin, che della casa faceva sistema capace di assorbire energia solare e accumularla, per poi, in taluni casi, alimentare anche iniziative imprenditoriali. Rimane da affrontare la questione mobilità. «L’elettrico non è la soluzione di tutti i mali – dichiara Boeri – non risolve il problema della CO2, ancora oggi la produzione di energia elettrica avviene attraverso la produzione forte di CO2, ma risolve in modo eccellente il problema del microparticolato. Occorre incentivare l’elettrico per trasporto pubblico, sharing e vettori privati, facilitando rottamazione e incentivazione». La nuova visione dei centri abitati, con servizi vicini facilmente raggiungili a piedi o in bici, influirà in modo importante sulla questione. Il mutamento è pure tema culturale.

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L’auto una riserva di energia: il veicolo come una batteria quattro ruote anche per la casa

L'auto una riserva di energia: il veicolo come una batteria quattro ruote anche per la casa
L'auto una riserva di energia: il veicolo come una batteria quattro ruote anche per la casa

La svolta energetica vive sul fiorire delle fonti rinnovabili che garantiranno un domani molto più sostenibile. Per tutti. Ma il profondo cambiamento del sistema non si ferma certo qui. La rivoluzione coinvolgerà numerose altre parti della filiera energetica perché, grazie al progresso tecnologico, consentirà di utilizzare al meglio la rete di distribuzione dell’elettricità. Un network che sarà in grado di convogliare e di mettere in circolo energia proveniente da un numero molto più elevato di sorgenti e di accumulatori. Un canale di distribuzione più snello, ma nello stesso tempo capace di gestire meglio i picchi di consumo anche nei periodi in cui l’eolico o il solare (le due principali rinnovabili) non sono in condizione di produrre, o almeno lo sono a “potenza ridotta”. Tutto ciò si baserà sul “dialogo”. Gli edifici, anche le abitazioni, non saranno più solo consumatori, ma si trasformeranno anche in produttori. E i veicoli elettrici offriranno le loro potenti batterie per immagazzinare la forza carbon free.

SCAMBIO DI DATI

La utilizzeranno per muoversi ma, quella in eccesso, la renderanno di nuovo disponibile nei momenti più opportuni. Ebbene, le due entità dovranno parlarsi, scambiarsi dati e informazioni per arrivare e rendere possibile lo “scambio di energia”. Uno scenario finora sconosciuto. Con questo inedito approccio perderanno importanza le “grandi centrali” di produzione perché le fonti saranno polverizzate e, magari, sarà direttamente chi la utilizza a generare energia. Ecco quindi che cambieranno le sorgenti (non più fossili ad esaurimento, ma sole e vento che in natura non hanno fine), ma sarà stravolto anche il processo produttivo rispetto a come eravamo abituati a pensarlo. Insomma, a parità di consumo, l’esigenza di energia alla fonte (in ogni caso non inquinante) sarà fortemente ridotta. E le reti potranno alleggerirsi, evitando il rischio di blackout. Già esistono sistemi chiusi, tutti fatti in casa. Uno schema che Tesla ha inserito fra le sue armi iniziali, al pari di una rete di colonnine pubbliche dedicate (spesso gratuite…) e a ricarica rapida. Estremizzando, se si mettono d’accordo, già con le “conoscenze” attuali l’abitazione e l’auto potrebbero essere autosufficienti dal punto di vista della produzione e della gestione dell’energia che può servire per tutti i bisogni. Un’energia ecologica. Lo schema, magari, è più alla portata di una casa “autonoma”, magari con giardino, e non di un appartamento. Con dei pannelli solari di ultima generazione, integrati in modo da non avere impatto estetico, si produce l’energia necessaria che viene immagazzinata in un accumulatore dell’abitazione. Per non esagerare con le dimensioni, entra in aiuto la vettura che già viene definita una batteria a quattro ruote.

Facendo il pieno anche all’auto con una capacità di un centinaio di kWh si può avere a disposizione una quantità di energia più che sufficiente per alcuni giorni, anche se il vento non soffia e il sole si nasconde dietro le nuvole. Tanto la riserva di energia nella batteria dell’auto si può tranquillamente utilizzare. Se non bisogna affrontare lunghi viaggi, infatti, quella contenuta nel serbatoio è esuberante e disponibile in quanto la vettura percorre quotidianamente qualche decina di chilometri ed ha un’autonomia di diverse centinaia. Questo è lo schema base, il sogno alla portata di diventare autosufficienti e non prelevare dalla rete alcun kW di energia (a pagamento). Ma i protagonisti del settore stanno studiando forme diverse e più sofisticate che dovranno consentire di non mandare persa neanche una goccia di energia. Grazie alle fonti rinnovabili, il panorama sarà diverso e il gran numero di veicoli elettrici in circolazione entro pochi anni modificherà possibilità e necessità. Nascerà un nuovo business per accaparrarsi l’elettricità, molto promettente, e attirerà newco che sono alternative ai classici colossi di energia. E poi ci sono i costruttori automobilistici interessati alle spese dei loro clienti e anche le ex compagnie petrolifere che hanno ben chiaro come gli affari legati agli idrocarburi andranno lentamente a scemare e dovranno essere sostituiti. In ogni caso, su una società decarbonizzata sono d’accordo tutti. Solo in Europa nel prossimo decennio verranno investiti quasi 100 miliardi per installare la rete di colonnine per le auto e rifornire di energia i milioni di veicoli sulle strade. Un’opportunità che prima non c’era e che molti vogliono prendersene una parte. Gli automobilisti vorranno i servizi e, oltre ad esigere un punto di rifornimento accessibile, pretenderanno un contratto di ricarica unico ad un prezzo molto conveniente.

LA JOHAN CRUIJFF ARENA

La sinergia bene immobile bene mobile diventerà via via più stretta e il passo successivo già esiste e si chiama V2G (vehicle to grid). L’auto elettrica, oltre a scambiarsi energia con la propria casa, potrà farlo direttamente con la rete pubblica con speciali colonnine che sono in grado di cedere energia nei due sensi (uscita e entrata dalla rete) e di quantificarne il valore che potrà variare in base a fattori diversi (prima di tutto le fasce orarie). Questa tecnologia già esiste, deve solo essere implementata e resa disponibile su larga scala. I primi a pensarci sono stati i giapponesi e in particolare la Nissan. Carlos Ghosn, bisogna riconoscerlo, aveva intuito prima di tutti che stava scoppiando la rivoluzione zero emission e che l’auto, con la velocità della luce, sarebbe diventata carbon free. E la casa giapponese era in questo campo la punta di diamante dell’invidiata Alleanza con Renault. Non usa il V2G (almeno per ora) ma la Johan Cruijff Arena di Amsterdam ha un impianto di illuminazione che produce energia mettendola anche a disposizione per la città e la immagazzina in 150 batterie della Leaf impiegate nella loro seconda vita. Il più grande impianto V2G? E’ in Italia, a Mirafiori, è in fase di espansione sotto le cure di Fca, Terna e Engie Eps, e il prossimo anno sarà abilitato per dialogare con 700 vetture (500e).

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Stefano Boeri: «Dalla crisi nasce la casa fluida»

Stefano Boeri
Stefano Boeri

La casa come “nido” e riparo, nell’accezione tradizionale, ma anche come ufficio, con lo smart working, spazio per l’intrattenimento e l’attività fisica. E, durante il lockdown, come “orizzonte”. L’emergenza sanitaria e le misure adottate per contenerla hanno mutato il nostro modo di vivere e “guardare” l’abitazione. Nuove necessità – e abitudini – hanno portato a mutamenti nell’uso degli spazi. All’architetto e urbanista Stefano Boeri, professore ordinario al Politecnico di Milano, visiting professor in più università internazionali, presidente della Fondazione La Triennale di Milano, nonché ideatore del Bosco Verticale di Milano, abbiamo chiesto di guidarci alla scoperta di una nuova idea dell’abitare.

Quali saranno i cardini della casa di domani?

«Abbiamo riscoperto i tetti come spazi di vita e credo che si possa fare di più. Nei nostri progetti stiamo usando i tetti anche per il coworking, per l’incontro tra inquilini, per la condivisione di un piccolo orto. I tetti, nell’architettura del futuro, dovrebbero e potrebbero svolgere quello che è stato per lungo tempo il ruolo dei cortili».

Anche il verde si è manifestato come esigenza forte.

«Il verde è tema importante sia come elemento non solo rassicurante e di qualità, ma anche per vivere meglio, aiuta a schermare la luce, ad assorbire le polveri sottili, sia quelle esterne, nella città, sia quelle prodotte nella vita domestica. Pensando pure che riusciremo a risolvere la problematica situazione attuale, nulla ci protegge dal rischio che possano accadere cose simili in futuro».

La casa, con l’emergenza, è diventata “teatro” di nuove attività: come muteranno i suoi ambienti?

«Ci sarà un sistema di arredi a geometria variabile. Alla fine è probabile, è una tendenza in corso, che dovremo abituarci a far sì che la camera da letto diventi un piccolo “monolocale polivalente”, in grado di adattarsi nel corso della stessa giornata ai differenti usi. Immagino una situazione di grande autonomia, grazie ad arredi che hanno modo di essere adattati nel tempo. Ci sono varie soluzioni interessanti di arredi mobili che possono essere spostati nello spazio, creando situazioni diverse. Esistono pareti attrezzate che diventano letti o, in alcuni casi, tavoli da lavoro. Credo si apra un periodo di grande creatività anche nel campo dell’abitare».

E la condivisione?

«Lo spazio del cibo, ossia la cucina, torna ad essere quello in cui i membri della famiglia o i coabitanti si ritrovano».

Oltre ai tetti, in quali altri ambienti si potrebbe sviluppare la casa?

«Ci sarebbe da fare un lavoro importante sui pianerottoli. Dovrebbero essere aree quasi di sanificazione. Il pianerottolo dovrebbe diventare un luogo in cui ognuno si spoglia degli elementi che potrebbero portare fattori inquinanti nella sfera privata. Immagino pianerottoli che usino infrarossi come elementi che possono ridurre il rischio di batteri e penso ad arredi per lasciare scarpe e cappotti, ad esempio. Il pianerottolo, oggi è poco usato, diventerà uno spazio più ricco. Non solo. Stiamo costruendo un quartiere sperimentale a Tirana, anche in logica post-pandemica, e stiamo immaginando una sorta di veranda all’ingresso di tutti gli appartamenti, che possa diventare indipendente, dove far stare una persona in caso sia contagiata, ma che, altrimenti, vada ad allargare l’ambiente condiviso. Uno spazio molto flessibile. Questo però si può fare quando si sta costruendo».

La casa perderà dunque le sue ripartizioni tradizionali?

«Siamo tutti nati sull’idea tipica dell’architettura moderna, ma anche dell’urbanistica, che tendeva a suddividere la giornata in tre grandi fasi: fase della residenza, fase del lavoro e fase del tempo libero. Ci siamo ispirati a una logica di questo tipo nel costruire case, edifici, città. Questa separazione oggi non ha più senso. Dobbiamo immaginare spazi più fluidi. Nella vita quotidiana ci capiterà sempre più spesso di inserire momenti di tempo libero nella fase dedicata al lavoro o di lavoro nella fase della residenza e così via. Ci saranno sempre più forti interconnessioni. Si passa da una visione di “scatole” accostate a una molto più osmotica. Gli spazi devono rispecchiare questa situazione e facilitarla».

Come si inserisce la domotica nella nuova visione dell’abitare?

«Può consentire di toccare meno superfici usando il riconoscimento facciale. Attraverso lo smartphone si può preparare la geometria variabile, anche a distanza. In molti boschi verticali abbiamo un sistema di sensori che rilevano la qualità dell’aria. La domotica è un elemento fondamentale ma di supporto, non è di per sé una prospettiva».

La residenza intesa pure come luogo di lavoro impone una riflessione sugli uffici.

«Stiamo progettando uffici con poche scrivanie, dove magari non si va sette giorni su sette ma due, tre giorni alla settimana, quindi non si deve necessariamente stare sempre al desk in un luogo deputato, perché lo si fa anche a casa. Ciò non vuol dire rinunciare all’ufficio come luogo di condivisione, interazione, socialità. Ma bisogna cambiare la modalità di pensarlo. Abbiamo città italiane con stock di uffici realizzati negli anni Settanta/Ottanta che oggi sono inutilizzabili come spazi di lavoro, ora la sfida è trasformarli in luoghi di una residenzialità di concezione nuova, penso a studentati».

Come muterà la città?

«Le città devono diventare un arcipelago di borghi urbani e i borghi storici devono tornare a essere piccole città. Dobbiamo immaginare città dove ci sia la possibilità di accedere a tutti i servizi necessari in tempi e spazi molto più ridotti. Stiamo andando verso un cambiamento radicale. Le città hanno sempre funzionato a partire da grandi epicentri della vita, come mercati, fabbriche, stadi, centri commerciali. Stiamo andando verso il decentramento. Non è un passaggio netto. Non è che non ci saranno più stadi o centri commerciali, ma andranno ripensati. Così la Sanità. Senza dimenticare la nostra capacità di essere connessi e realizzare scambi anche a grandi distanza, la vita di quartiere diventerà sempre più importante. In alcune città, questa dimensione non si è mai persa. A Roma, penso alla Garbatella».

Il verde si conferma anche qui tema chiave.

«Stiamo facendo a Prato, con Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, un esperimento che abbiamo chiamato “urban jungle”. Stiamo trasformando un grande edificio di uffici e un complesso di case popolari in luoghi dove il verde è ovunque: su tetti, interni, facciate, cortili. Dobbiamo rompere la barriere tra natura e artificio nello spazio dell’abitare. Recentemente sono stati pubblicati gli esiti di una ricerca fatta in Finlandia su un campione di bambini tra 3 e 5 anni. Metà ha giocato per un periodo in un cortile di ghiaia, metà tra gli alberi. La difesa immunitaria dei bimbi che erano stati nel verde è risultata più alta».

Sta sviluppando in ottica green anche il progetto di Tirana, che sarà il primo quartiere d’Europa in grado di rispondere alle nuove esigenze della fase post-pandemica.

«Il cantiere è aperto. Abbiamo studiato la distribuzione dei servizi in modo che siano accessibili a tutti a piedi o in bici, senza prendere l’auto. Togliendo quasi del tutto i parcheggi si possono creare spazi aperti come camere verdi». Il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sostiene la necessità di una nuova Bauhaus “green” europea. «Sono d’accordo e credo che l’Italia debba essere protagonista. Abbiamo la massima biodiversità europea, le scuole politecniche di creatività applicata al design più belle del mondo e un’esperienza importante nel verde. Penso che l’Italia abbia tutte le armi per essere protagonista di questa giustissima intuizione».

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L'urbanista e architetto Stefano Boeri: «Dalla crisi nasce la casa fluida»

La casa come “nido” e riparo, nell’accezione tradizionale, ma anche come ufficio, con lo smart working, spazio per l’intrattenimento e l’attività fisica. E, durante il lockdown, come “orizzonte”. L’emergenza sanitaria e le misure adottate per contenerla hanno mutato il nostro modo di vivere e “guardare” l’abitazione. Nuove necessità – e abitudini – hanno portato a mutamenti nell’uso degli spazi. All’architetto e urbanista Stefano Boeri, professore ordinario al Politecnico di Milano, visiting professor in più università internazionali, presidente della Fondazione La Triennale di Milano, nonché ideatore del Bosco Verticale di Milano, abbiamo chiesto di guidarci alla scoperta di una nuova idea dell’abitare.

 

 

Quali saranno i cardini della casa di domani?

«Abbiamo riscoperto i tetti come spazi di vita e credo che si possa fare di più. Nei nostri progetti stiamo usando i tetti anche per il coworking, per l’incontro tra inquilini, per la condivisione di un piccolo orto. I tetti, nell’architettura del futuro, dovrebbero e potrebbero svolgere quello che è stato per lungo tempo il ruolo dei cortili».

Anche il verde si è manifestato come esigenza forte.

«Il verde è tema importante sia come elemento non solo rassicurante e di qualità, ma anche per vivere meglio, aiuta a schermare la luce, ad assorbire le polveri sottili, sia quelle esterne, nella città, sia quelle prodotte nella vita domestica. Pensando pure che riusciremo a risolvere la problematica situazione attuale, nulla ci protegge dal rischio che possano accadere cose simili in futuro».

La casa, con l’emergenza, è diventata “teatro” di nuove attività: come muteranno i suoi ambienti?

«Ci sarà un sistema di arredi a geometria variabile. Alla fine è probabile, è una tendenza in corso, che dovremo abituarci a far sì che la camera da letto diventi un piccolo “monolocale polivalente”, in grado di adattarsi nel corso della stessa giornata ai differenti usi. Immagino una situazione di grande autonomia, grazie ad arredi che hanno modo di essere adattati nel tempo. Ci sono varie soluzioni interessanti di arredi mobili che possono essere spostati nello spazio, creando situazioni diverse. Esistono pareti attrezzate che diventano letti o, in alcuni casi, tavoli da lavoro. Credo si apra un periodo di grande creatività anche nel campo dell’abitare».

E la condivisione?

«Lo spazio del cibo, ossia la cucina, torna ad essere quello in cui i membri della famiglia o i coabitanti si ritrovano».

Oltre ai tetti, in quali altri ambienti si potrebbe sviluppare la casa?

«Ci sarebbe da fare un lavoro importante sui pianerottoli. Dovrebbero essere aree quasi di sanificazione. Il pianerottolo dovrebbe diventare un luogo in cui ognuno si spoglia degli elementi che potrebbero portare fattori inquinanti nella sfera privata. Immagino pianerottoli che usino infrarossi come elementi che possono ridurre il rischio di batteri e penso ad arredi per lasciare scarpe e cappotti, ad esempio. Il pianerottolo, oggi è poco usato, diventerà uno spazio più ricco. Non solo. Stiamo costruendo un quartiere sperimentale a Tirana, anche in logica post-pandemica, e stiamo immaginando una sorta di veranda all’ingresso di tutti gli appartamenti, che possa diventare indipendente, dove far stare una persona in caso sia contagiata, ma che, altrimenti, vada ad allargare l’ambiente condiviso. Uno spazio molto flessibile. Questo però si può fare quando si sta costruendo».

La casa perderà dunque le sue ripartizioni tradizionali?

«Siamo tutti nati sull’idea tipica dell’architettura moderna, ma anche dell’urbanistica, che tendeva a suddividere la giornata in tre grandi fasi: fase della residenza, fase del lavoro e fase del tempo libero. Ci siamo ispirati a una logica di questo tipo nel costruire case, edifici, città. Questa separazione oggi non ha più senso. Dobbiamo immaginare spazi più fluidi. Nella vita quotidiana ci capiterà sempre più spesso di inserire momenti di tempo libero nella fase dedicata al lavoro o di lavoro nella fase della residenza e così via. Ci saranno sempre più forti interconnessioni. Si passa da una visione di “scatole” accostate a una molto più osmotica. Gli spazi devono rispecchiare questa situazione e facilitarla».

Come si inserisce la domotica nella nuova visione dell’abitare?

«Può consentire di toccare meno superfici usando il riconoscimento facciale. Attraverso lo smartphone si può preparare la geometria variabile, anche a distanza. In molti boschi verticali abbiamo un sistema di sensori che rilevano la qualità dell’aria. La domotica è un elemento fondamentale ma di supporto, non è di per sé una prospettiva».

La residenza intesa pure come luogo di lavoro impone una riflessione sugli uffici.

«Stiamo progettando uffici con poche scrivanie, dove magari non si va sette giorni su sette ma due, tre giorni alla settimana, quindi non si deve necessariamente stare sempre al desk in un luogo deputato, perché lo si fa anche a casa. Ciò non vuol dire rinunciare all’ufficio come luogo di condivisione, interazione, socialità. Ma bisogna cambiare la modalità di pensarlo. Abbiamo città italiane con stock di uffici realizzati negli anni Settanta/Ottanta che oggi sono inutilizzabili come spazi di lavoro, ora la sfida è trasformarli in luoghi di una residenzialità di concezione nuova, penso a studentati».

Come muterà la città?

«Le città devono diventare un arcipelago di borghi urbani e i borghi storici devono tornare a essere piccole città. Dobbiamo immaginare città dove ci sia la possibilità di accedere a tutti i servizi necessari in tempi e spazi molto più ridotti. Stiamo andando verso un cambiamento radicale. Le città hanno sempre funzionato a partire da grandi epicentri della vita, come mercati, fabbriche, stadi, centri commerciali. Stiamo andando verso il decentramento. Non è un passaggio netto. Non è che non ci saranno più stadi o centri commerciali, ma andranno ripensati. Così la Sanità. Senza dimenticare la nostra capacità di essere connessi e realizzare scambi anche a grandi distanza, la vita di quartiere diventerà sempre più importante. In alcune città, questa dimensione non si è mai persa. A Roma, penso alla Garbatella».

Il verde si conferma anche qui tema chiave.

«Stiamo facendo a Prato, con Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, un esperimento che abbiamo chiamato “urban jungle”. Stiamo trasformando un grande edificio di uffici e un complesso di case popolari in luoghi dove il verde è ovunque: su tetti, interni, facciate, cortili. Dobbiamo rompere la barriere tra natura e artificio nello spazio dell’abitare. Recentemente sono stati pubblicati gli esiti di una ricerca fatta in Finlandia su un campione di bambini tra 3 e 5 anni. Metà ha giocato per un periodo in un cortile di ghiaia, metà tra gli alberi. La difesa immunitaria dei bimbi che erano stati nel verde è risultata più alta».

Sta sviluppando in ottica green anche il progetto di Tirana, che sarà il primo quartiere d’Europa in grado di rispondere alle nuove esigenze della fase post-pandemica.

«Il cantiere è aperto. Abbiamo studiato la distribuzione dei servizi in modo che siano accessibili a tutti a piedi o in bici, senza prendere l’auto. Togliendo quasi del tutto i parcheggi si possono creare spazi aperti come camere verdi». Il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sostiene la necessità di una nuova Bauhaus “green” europea. «Sono d’accordo e credo che l’Italia debba essere protagonista. Abbiamo la massima biodiversità europea, le scuole politecniche di creatività applicata al design più belle del mondo e un’esperienza importante nel verde. Penso che l’Italia abbia tutte le armi per essere protagonista di questa giustissima intuizione».

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